2.Sandro Penna1906-1977)
Nato a
Perugia. visse soprattuto a Roma, svolgendo vari mestieri,
quali il ragioniere, il traduttore, il mercante d'arte. Nel 1938 iniziò
la sua attività di scrittore con il volume Poesie. Poeta di grande
rilievo, autore di versi scritti con particolare ricchezza di linguaggio,
pervasi di ironia, in un'atmofera di sogno, ha pubblicato anche Una
strana gioia di vivere, Croce e delizia, oltre al libro di racconti Un
po' di febbre.
quali il ragioniere, il traduttore, il mercante d'arte. Nel 1938 iniziò
la sua attività di scrittore con il volume Poesie. Poeta di grande
rilievo, autore di versi scritti con particolare ricchezza di linguaggio,
pervasi di ironia, in un'atmofera di sogno, ha pubblicato anche Una
strana gioia di vivere, Croce e delizia, oltre al libro di racconti Un
po' di febbre.
Quando tornai al mare di una volta,
nella sera fra i caldi viali
ricercavo i compagni di allora…
Come
un lupo impazzito odoravo
la calda ombra fra le case. L’odore
antico e vuoto mi cacciava all’ampia
spiaggia sul mare aperto. Lì trovavo
l’amarezza più chiara e la mia ombra
lunare ferma su l’antico odore.
Sandro
Penna: Poesie
una nota
di CESARE
GARBOLI
La poesia di Sandro Penna
è fatta del ricordo di cose presenti,
nasce dalla vicinanza e dalla lontananza, dal dilatarsi e accorciarsi
gommoso di sensazioni che appartengono a un presente che è
sempre già passato e a un passato fulmineo e istantaneo come il
presente. Così la pendolarità di felicità e frustrazione trova un
correlativo immediato nella fatalità meteorologica, e nel rapporto
tòpico (che è una specie di spago col quale Penna cuce moltissime
delle sue poesie) interno/esterno, ambiente chiuso e plein air. Mentre
tutto il sistema penniano ruota intorno a una solarità che fa pensare
a uno stupore da primitivo («sole» è parola-tema di Penna, le estensioni meteorologicamente metonimiche dell’oscurità (sera, notte, luna, stelle,
pioggia, nubi) si fanno carico dell’interiorità con cui la vita si ritira
nell’ombra dopo le «solari gesta» e le «solari prodezze» del giorno,
e rinuncia a se stessa per il bisogno non meno vitale di ricontemplarsi
e di ricordarsi.Penna si è fatto interprete non della novità del linguaggio
poetico italiano del Novecento, ma – che non è meno importante –del suo
destino di putrefazione. Ci sono poeti di tale forza innovatrice da cambiare
quasi di colpo i codici costituiti; e ci sono poeti inamovibili dall’antichità,
così fedeli alla tradizione da scenderne giù come le pecore dai tratturi.
Penna è poeta di questa razza; poeta di registro linguistico piccolo-
borghese, dannunziano e pascoliano, inesplicabile in un secolo che
ha fatto del linguaggio uno strumento non di lode, ma di concorrenza
col mondo. Uno dei motivi che hanno tenuto Penna lontano dai centri
di maggior traffico della cultura italiana negli ultimi cinquant’anni, è
stata la sua disappartenenza al moderno, la sua natura, in contrasto
con la sua psicologia, di epigono, di poeta sopravvissuto. Il fatto è
che le radici di Penna si perdono poi così lontano da elevare la potenza
del suo italiano qualunque e da trasformare lo scintillio moribondo in
un valore storico, in una contraddizione occulta e predestinata come
una malattia. La poesia di Penna presuppone il grande serbatoio
pascoliano – «ascolto i miei pensieri / piegarsi sotto il vento
occidentale»– e nasce dall’oscuro nesso vita-sogno, da perdite di
memoria e pronti rimedi dannunziani di stile panico («Nel cuore è
quasi un urlo / di gioia. E tutto è calmo»). Ma Penna non fa mai
ricordare i modelli. Penna trascrive direttamente dal vissuto, riducendo
a pochi suoni inimitabili una tastiera letteraria fatta di combinazioni
miracolose di grazia visiva, pennello impressionista, traduzione «greca»,
stile narrativo, canzonetta sentimentale. Ricchissimo il movimento
emotivo, in pendolo tra la meraviglia di vivere e il confuso dolore da
piede gonfio; e mobilissima la variabilità, la temperatura, l’intonazione,
sempre in equilibrio fra lo stupore onirico, la battuta gnomica, il tono
fatale, il sottinteso ironico, e soprattutto il decreto di legge esistenziale
da idolo impenetrabile col volto pieno di rughe. Penna è poeta molto chic;
col passare degli anni, ha poi sostituito a linee musicali di una certa
evanescenza una franchezza ritmica che si esalta nella precisione di
segno degli «appunti», nella semplicità oracolare, per così dire, del
distico e della quartina.
nasce dalla vicinanza e dalla lontananza, dal dilatarsi e accorciarsi
gommoso di sensazioni che appartengono a un presente che è
sempre già passato e a un passato fulmineo e istantaneo come il
presente. Così la pendolarità di felicità e frustrazione trova un
correlativo immediato nella fatalità meteorologica, e nel rapporto
tòpico (che è una specie di spago col quale Penna cuce moltissime
delle sue poesie) interno/esterno, ambiente chiuso e plein air. Mentre
tutto il sistema penniano ruota intorno a una solarità che fa pensare
a uno stupore da primitivo («sole» è parola-tema di Penna, le estensioni meteorologicamente metonimiche dell’oscurità (sera, notte, luna, stelle,
pioggia, nubi) si fanno carico dell’interiorità con cui la vita si ritira
nell’ombra dopo le «solari gesta» e le «solari prodezze» del giorno,
e rinuncia a se stessa per il bisogno non meno vitale di ricontemplarsi
e di ricordarsi.Penna si è fatto interprete non della novità del linguaggio
poetico italiano del Novecento, ma – che non è meno importante –del suo
destino di putrefazione. Ci sono poeti di tale forza innovatrice da cambiare
quasi di colpo i codici costituiti; e ci sono poeti inamovibili dall’antichità,
così fedeli alla tradizione da scenderne giù come le pecore dai tratturi.
Penna è poeta di questa razza; poeta di registro linguistico piccolo-
borghese, dannunziano e pascoliano, inesplicabile in un secolo che
ha fatto del linguaggio uno strumento non di lode, ma di concorrenza
col mondo. Uno dei motivi che hanno tenuto Penna lontano dai centri
di maggior traffico della cultura italiana negli ultimi cinquant’anni, è
stata la sua disappartenenza al moderno, la sua natura, in contrasto
con la sua psicologia, di epigono, di poeta sopravvissuto. Il fatto è
che le radici di Penna si perdono poi così lontano da elevare la potenza
del suo italiano qualunque e da trasformare lo scintillio moribondo in
un valore storico, in una contraddizione occulta e predestinata come
una malattia. La poesia di Penna presuppone il grande serbatoio
pascoliano – «ascolto i miei pensieri / piegarsi sotto il vento
occidentale»– e nasce dall’oscuro nesso vita-sogno, da perdite di
memoria e pronti rimedi dannunziani di stile panico («Nel cuore è
quasi un urlo / di gioia. E tutto è calmo»). Ma Penna non fa mai
ricordare i modelli. Penna trascrive direttamente dal vissuto, riducendo
a pochi suoni inimitabili una tastiera letteraria fatta di combinazioni
miracolose di grazia visiva, pennello impressionista, traduzione «greca»,
stile narrativo, canzonetta sentimentale. Ricchissimo il movimento
emotivo, in pendolo tra la meraviglia di vivere e il confuso dolore da
piede gonfio; e mobilissima la variabilità, la temperatura, l’intonazione,
sempre in equilibrio fra lo stupore onirico, la battuta gnomica, il tono
fatale, il sottinteso ironico, e soprattutto il decreto di legge esistenziale
da idolo impenetrabile col volto pieno di rughe. Penna è poeta molto chic;
col passare degli anni, ha poi sostituito a linee musicali di una certa
evanescenza una franchezza ritmica che si esalta nella precisione di
segno degli «appunti», nella semplicità oracolare, per così dire, del
distico e della quartina.
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