lunedì 31 agosto 2020

XXVII.USA 62.Lance Henson,b.Sogno




XXVII.USA

62.Lance Henson,

 nato a Washington nel 1944 da padre francese
 sconosciuto e madre cheyenne, più volte abusata da bambina, è
cresciuto  a Calumet in Oklahoma presso la sua tribù. Dopo il
conseguimento di un Master in Fine Arts, in scrittura creativa,
 all’Università di Tula, ha condotto numerosi laboratori di poesia
 negli Stati Uniti. Ha combattuto nella guerra del Vietnam; militante
dell’American Indian Movement, è membro della Dog Soldier Society;
 dal 1988  al 2006 è stato scelto per rappresentare il popolo cheyenne
alla Conferenza delle Nazioni Unite sui Popoli Indigeni di tutto il mondo
che si tiene a Ginevra. Ha pubblicato finora 28 volumi di poesie e le sue
 opere sono state tradotte in molte lingue.
Attualmente vive in Italia.

b.Sogno

La scorsa notte ti ho sognata
camminavi sui ciottoli della riva
con me
ti ho sognata
e come  se fossi sveglio
ti ho seguita
meravigliosa
quanto una giovane foca
ti ho desiderata così come un cacciatore
brama una foca giovanissima
che si tuffa sentendosi inseguita.
Questo è quanto
mi è accaduto.

La centralità della tradizione orale nella formazione
di una identità indiana emerge  nei versi di Lance Henson,
nella sua dolorosa ricerca di equilibrio degli opposti
(esterno/interno; luce/ oscurità; sonno/veglia;
vicino/lontano) e nella carica onirica e simbolica
(sogno/terra, cioè radici/vento/volo, cioè spirito),
mentre una natura più oscura ha ormai sostituito
i paesaggi di rocce rosse e le praterie lontane.
Il sogno è di primaria importanza nella  realizzazione
dell’atto creativo. Ha fornito visioni e canti ed  ha
potuto essere la chiave che ha aperto,nella tradizione
della Nazione indiana, le porte arcane della  sacralità.





domenica 30 agosto 2020

XXVII.USA.62.Lance Henson,a.Come le si tolsero i denti.






XXVII.USA

62.Lance Henson,

nato a Washington nel 1944 da padre francese sconosciuto
e madre cheyenne, più volte abusata da bambina, è cresciuto
a Calumet in Oklahoma presso la sua tribù. Dopo il conseguimento
di un Master in Fine Arts, in scrittura creativa, all’Università di Tula,
ha condotto numerosi laboratori di poesia negli Stati Uniti. Ha
combattuto nella guerra del Vietnam; militante dell’American
Indian Movement, è membro della Dog Soldier Society;  dal 1988
al 2006 è stato scelto per rappresentare il popolo cheyenne
alla Conferenza delle Nazioni Unite sui Popoli Indigeni di tutto il mondo
che si tiene a Ginevra. Ha pubblicato finora 28 volumi di poesie e
le sue opere sono state tradotte in molte lingue.
Attualmente vive in Italia.

a.Come le si tolsero i denti

Nei tempi antichi le fiche delle donne erano fornite di denti.
Era rischioso essere uomini allora
Osservare la tua donna che si accovacciava a mangiare
Sentire schiacciare le piccole ossa di coniglio.
Ogniqualvolta venne ideata la scopata morì coll’inventore.
Se la tua donna desiderava morderti ti preoccupavi.
Forse ti precipitavi a combattere Numuzoho  il Cannibale.

Fu Coyote *a sistemare tutto,
Sistemò tutte quelle donne dentate!
Una notte prese il pestello di lava di Numuzoho
e lo portò a letto con una donna incontentabile
e martella martella crunch crunch ayi ayi
Tutta notte:” Marito, sono soddisfatta ”, esclamò
E tutto il resto è noto.
In suo onore portiamo collane di zanne. 

Come le si tolsero i denti”,

da Canti e narrazioni  degli Indiani d’America,
Guanda ed.1978.A cura di Franco Meli

E’ un canto-leggenda dei Paiute*

Anche la  sincresi di tradizione nativa e modernità euro-americana
è fortemente rappresentata nella poesia statunitense di oggi.
Un esempio possiamo trovarlo nei versi di Lance Henson, la voce
esiliata dei nativi cheyenne (tsitsistas), guerriero della parola
in esilio. Usa l’inglese, la lingua imposta al suo popolo,  ma la usa da
“dissidente, rifiutando alcune regole e convenzioni della lingua scritta,
come l’uso della punteggiatura e delle maiuscole”. La forma e il ritmo,
infatti,  si riallacciano piuttosto alla tradizione orale nativa, così come
la sua idea del poeta come messaggero di profezie e rivelazioni. La sua
è una tradizione ricca di affascinanti leggende, miti e narrazioni profane,
che nonostante le diversità linguistiche delle varie tribù, presentano
un comune sentire nel loro rapporto mitico con la realtà e nel loro
desiderio di armonia con la natura.  L’ espressione verbale, basata
sul ritmo musicale, è fondamentale nei canti tradizionali tribali e
sciamanici dei nativi americani, così come la danza era inseparabile
dal canto e dalla poesia.
Nella letteratura degli Indiani d’America la figura di Coyote  nasce
da una profonda,fertile,grottesca immaginazione,sovvertitrice
dell’ordine naturale e sociale. Rappresenta, allo stesso tempo,
divinità,uomo  e animale e può avere tratti subumani quanto
superumani .Come ogni sistema energetico, si regge sulla  tensione
degli opposti. Ridicolizza il conformismo sociale .È una  forza
della natura che crea,trasforma,  distrugge e che può vittimizzare
anche se stessa. Per gli Indiani Crow è il creatore imperfetto/
pericoloso di un universo a sua immagine. In altre aree culturali
indiane si sostiene invece che il Creatore fece tutte le cose buone,
ma il Divino Briccone portò la confusione. Risposta analoga a quella
che il cristianesimo ha  dato allo stesso problema con la concezione
del peccato originale.Molti canti dei nativi furono raccolti da missionari,
antropologi, linguisti e tradotti -e spesso traditi dai pregiudizi degli
studiosi stessi-  in inglese. Solitamente,il ritmo iterativo dona un fascino
ipnotico e suadente al narrato, dove poco è esplicitato e molto è lasciato
al potere allusivo delle immagini. Ci sono canti per ogni occasione e  per
manifestare sentimenti e desideri, come in questo canto esquimese.

*Popolazione nativa nord-americana (California, Nevada e Oregon).
.

sabato 29 agosto 2020

XXVII.USA 61.Gina Valdès.a.A Moreno




XVII.USA.

61.Gina  Valdès

 nasce a Los Angeles nel 1943.
 Fanciulla soggiorna in Messico per poi rientrare negli USA
 dove conduce i suoi studi a S.Diego, California. Giovanissima
 ha una permanenza in Giappone, paese d’origine del marito,
 e torna negli USA.Vive a San Diego, alternando viaggi
soprattuto in Messico e in Giappone. Il suo impegno letterario
è improntato pittosto da interessi sociali che estetici. Insegna
 letteratura chicana a Sacramento.

a.A Moreno    [1]

Tu sei come una foresta
umida, frondosa e verde
nei tuoi rami nei tuoi fiumi
vorrei tanto scomparire!

Il tuo corpo, la tua pelle scura
hanno profumo di foresta
quando mi smarrirò nei tuoi torrenti
senza che io ti chiuda per lasciarti non so se poi ritornerò.

La luna piena, la luna
la pelle la sabbia ardente,
cresce la marea cresce
si schiantano i cavalloni.

Sopra c'è la luna piena
sotto il mare che ribolle
tu col ritmo della luna
odoroso come il mare.

Al  ritmo della marea che sale
mi accarezzi sulla sabbia,
mi sollevi sopra un'onda
a raggiungere le stelle.    

    Ecco allora la schiera dei poeti  che, per un momento almeno,
 si fanno feticisti e affidano in particolare a un solo chicco del rosario
corporeo  la  leva del desiderio.  Ogni grano col suo colore e sapore,
ogni poeta con la sua ossessione esaltante, con la sua  monomania
delirante da sublimare nel verso per formare – tutti insieme - una
collana bizzarra che sta a ben rappresentare la follia dell'amore.
Variegata e curiosa, spettacolare e coinvolgente come la tavolozza
del pittore più fauve[2].
        Una tavolozza che va dal rosso audace della bocca
succosa e sapida come il mango maturo di Gina Valdès[3]
-che qui li rappresenta tutti con il suo poema-dedica
“A Moreno”-  che in "Mangiando fuoco" è combattuta fra
 il desiderio fertile del cuore di lui, che l'attanaglia con la
sua lingua e  il suo  respiro di nuvole, arricchendo la sua
 ispirazione, e  l'urgenza di libertà che la preme e le fa
implorare il distacco  per il bisogno d'impegno che urge
 verso chi non ha pane ...
        ... Alla pelle scura di "Moreno" –per l’appunto,
che qui mi fa piacere proporre- che attrae Gina Valdès
 per il suo profumo di foresta e di mare o a quella che
 affascina  Seifert[4] perché ha il puro candore del bucaneve.
Ma anche a quella del giovane principe che la giovinetta
dell’hain teny malgascio evoca con fremiti di desiderio
per il suo indimenticabile  profumo: quasi che, dal
Centroamerica di Gina Valdès all’Africa malgascia,
l’incantamento femminile resti costantemente
lo stesso… [5]




[1] Gina Valdès,” A Moreno”, in Sotto il quinto sole, op.cit. 
[2]’Selvaggi’:pittori che a Parigi, all’inizio del ‘900, vengono definiti così per il loro uso violento del colore. 
[3]Gina Valdès nasce a Los Angeles nel 1943. Fanciulla soggiorna in Messico per poi rientrare negli USA dove conduce i suoi studi a S.Diego, California. Giovanissima ha una permanenza in Giappone, paese d’origine del marito, e torna negli USA.Vive a San Diego, alternando viaggi soprattuto in Messico e in Giappone. Il suo impegno letterario è improntato pittosto da interessi sociali che estetici. Insegna letteratura chicana a Sacramento.
[4] Jaroslav Seifert nasce nel 1901 a Zizkov,quartiere operaio di Praga (Cecoslovacchia), e muore a Praga, nel 1986. Premio Nobel per la letteratura  nel 1984.
[5] …E  questi poeti, chi fosse interessato,potrà  incontrare, immergendosi
 nel mio vecchio  blog “gabysouk.blogspot.com “,dedicato a pubblicazioni varie 
 per conoscere qualche  poesia di  questa famiglia  affascinante,dispersa negli
angoli più reconditi  del pianeta. 



venerdì 28 agosto 2020

XXVII.USA 60.Sylvia Plath.a.Finisterre




XXVII.USA



60.Sylvia Plath
(Boston, 27 ottobre 1932 – Londra, 11 febbraio 1963)
è stata una poetessa e scrittrice statunitense. Conosciuta
per le sue poesie, ha anche scritto il romanzo semi-autobiografico
La campana di vetro (The Bell Jar) sotto lo pseudonimo di Victoria Lucas.

a.Finisterre

Qui finiva la terra: le estreme dita, nocchiute e reumatiche,
rattrappite sul nulla. Ammonitori
neri dirupi, e il mare che esplode
senza fondo, o alcunché d’altro al di là,
bianco di visi annegati.
Adesso è soltanto tetro, un ammasso di rocce
soldati sbandati di vecchie, confuse guerre.
Il mare gli cannoneggia gli orecchi, ma loro non mollano.
Altre rocce nascondono i loro rancori sott’acqua.

Il precipizio ha un orlo di stelle, trifogli e campanule
ricamate si direbbe da dita, prossime a morte,
piccole al punto che quasi sfuggono alle brume.
Le brume sono parte dell’antico armamentario,
anime, arrotolate nel cupo lamento del mare.
Cancellano le rocce, poi le rifanno alla luce.
Salgono senza speranza, come sospiri.
Ci passo in mezzo, mi riempiono la bocca di cotone.
E quando me ne libero sono imperlata di lacrime.

Nostra Signora dei Naufraghi va verso l’orizzonte,
le sue vesti di marmo sventolanti all’indietro come ali.
Assorto a lei s’inginocchia un marinaio di marmo
a cui s’inginocchia la donna vestita di nero
pregando al monumento del marinaio che prega.
Nostra Signora dei Naufraghi è tre volte il naturale,
e dolci le sue labbra di celestialità.
Non sente quel che dicono il marinaio o la donna.
È tutta presa dalla bella informità del mare.

Nastri color gabbiano svolazzano alla brezza
accanto ai chioschi di cartoline illustrate.
I contadini li ancorano a conchiglie. “Comprate”
dicono, “i bei gioielli che il mare nasconde,
piccoli gusci che fanno bamboline e collane.
Non vengono dalla Baia dei Morti laggiù,
ma da un altro posto, azzurro e tropicale,
dove non siamo mai stati.
Comprate le nostre frittelle, mangiatele ancora calde”.

(Sylvia Plath, Attraverso l'acqua)

"Qui finiva la terra", collocato da Sylvia Plath all'inizio
dei versi per creare un "diversivo", quasi a voler parlar d’altro
e distrarre  dal momento "estatico" da lei vissuto.Interessante
l’uso dei tempi verbali ancora per distinguere la ricerca di una
risposta dalla meta ,che,peraltro, realizza l’assenza,una realtà irrisolta.
È come se le sue ultime vette,ovvero vite scalate, ancora una volta
fossero rimaste consunte e sfiorite, irrigidite sul baratro di uno spoglio
orizzonte. Un incipit  che ha  il senso di intimo e aperto dialogo
con il suo io, sempre esposto alla vertigine provocata dalla vita stessa
non vuol dire che Sylvia Plath si sia persa nell'emozione suscitata
dalla vista del paesaggio circostante. Piuttosto, proprio la visione
di quel panorama, la sua particolare conformazione, le luci e i suoni
che gli appartengono, hanno spinto la sua fantasia a tuffarsi nel mare
della logica.Quella stessa assenza di cui ha sempre avuto sentore, e
che ancora le lascia dubbi e perplessità, una gelida devastante sensazione
di "sconcerto". La vediamo agitarsi tra cupe divinazioni e un moltiplicarsi
di ipotesi che, ad una ad una, precipitano nell'abisso già presupposto e
"sentito" dalla sua coscienza". Questa sottile metafora, fatta d'emozione e
ragione, di misticismo e scienza,finisce per apparentare Sylvia Plath,
ai grandi pensatori che si sono interessati all'essenza e alle ragioni profonde
dell'essere, il divenire, la dialettica, l'ontologia, le possibilità conoscitive
dell'uomo. Sylvia Plath, che sente e percepisce l' "altrove", la perfezione
del cerchio che salva ed emancipa, grida con tutta la forza del cuore
la sua verità. E tale verità è quella "del non sapere", del "mettersi in
discussione", "della continua ricerca", perchè solo riuscendo a mediare
tra le dimensioni conosciute e quelle ignote, si può coltivare un nuovo fiore,
il fiore della saggezza e della prudenza, il fiore che libera dalle zavorre e
dalle finzioni. Sylvia Plath gestisce il filo della sua vita, può scrutare
il mondo dall'alto del suo trono celeste, osservare quanti inconsapevolmente
finiscono per immiserire le loro già sbiadite esistenze: da sottolineare
il contrasto  tra il bianco "color gabbiano" e i colori delle "cartoline illustrate",
ma soprattutto come quei "nastri" servano per fermare le fugaci luci e
gli effimeri colori delle "cartoline" che il vento scuote, quasi volesse
smaterializzarle. D'altra parte nelle "brume" è velato un richiamo al mito,
nello specifico alle Moire, le tre figlie di Zeus e di Temi: Cloto filava
lo "stame" della vita, Lachesi lo avvolgeva sul fuso e stabiliva quanto filo
spettasse a ogni uomo, Atropo con le sue cesoie, lo recideva inesorabilmente.
Ad Atropo, colei cui non si può sfuggire, la dea "inflessibile", era assegnato
il compito di recidere il filo della vita del singolo, decretandone il momento
della morte. Alla luce di questo "indizio" mitologico i versi "Ci passo in mezzo,
mi riempiono la bocca di cotone. E quando me ne libero sono imperlata di
lacrime"cominciano ad acquistare senso. Sylvia Plath "sente" avvicinarsi la
prossima fine (i fili "di cotone" ne sono la testimonianza e si scioglie in un
pianto trasparente e lucido, un pianto liberatorio: con la morte finiranno
le sue pene, la sua anima sarà libera di ascendere e librarsi nella freschezza
di nuovi orizzonti. La raggiunta consapevolezza della turpitudine che sovrasta
la vita terrena rende Sylvia Plath padrona assoluta della sua essenza, ormai,
lei stessa mito, può sedere al fianco degli déi dell'Olimpo: ed in lei
riconosciamo "Nostra Signora dei Naufraghi (che) va verso l'orizzonte,
le sue vesti di marmo sventolanti all'indietro come ali". Sylvia Plath
assurge al regno degli dèi, riunificando in se stessa i poteri soprannaturali
di Cloto, Lachesi e Atropo;con lirico trasporto: "Nostra Signora
dei Naufraghi è tre volte il naturale, e dolci le sue labbra di celestialità.
Non sente quel che dicono il marinaio o la donna - è tutta presa dalla
bella informità del mare".e da una parte, si realizza l'identificazione
con la natura, dall'altra, si sviluppa un superamento in termini di perfezione,
perché all'insondabile e assurda realtà - che disorienta la mente e l'anima,
elargendo odiose e amare gocce di pianto - Sylvia Plath oppone la sua libera
 essenza e la sua "scienza del tutto". A contrasto miseri individui cercano
di utilizzare per fini utilitaristici ciò che invece simboleggia un disinteressato
 e sincero amore per la conoscenza. Si tratta ancora di quei "Nastri color
gabbiano" trattenuti a terra, quasi rapiti e immobilizzati dagli uomini,
tanto incapaci di vivere la bellezza e la leggerezza dell'esistenza,
di immergersi nella luce e partecipare profondamente all'armonia
che è dovunque.. L'immagine del volo scopre la totale assimilazione
tra l'animo di Sylvia Plath, che rappresenta in versi le sue aspirazioni,
e la natura del gabbiano pronto a librarsi in uno spazio rivelatore.. Ma
la realtà di questa vita si oppone alla perfezione, perchè quei
"Nastri color gabbiano", saldamente fissati dalle avide mani dell'uomo,
possono solo sventolare "alla brezza" che irrompe nell'aria: un flusso
bruciante sembra accompagnare le discese e le risalite delle bianche ali,
ultimi emblemi di libertà. Questa condizione esterna sospende quasi il volo
mentale, perché l'orrida umana realtà innalza le sue terribili lance contro
i desideri e le aspettative, finendo per minare la possibilità stessa di una
rinascita . I versi di chiusura, che sono invocazione alla comprensione,
sanciscono la posizione assunta da Sylvia Plath, dell'io che si interroga
allo specchio e si ritrova. Proprio la capacità di comprendere e
rappresentare la monotonia della vita terrena salva e conduce
sui sentieri dell'oltre. Già l'oltre, l'impercettibile oltre che, ancor prima
d'essere fuori dal nostro io, è esso stesso umana sostanza, essenza
di liquida roccia eterna che si è liberata negli oceani .