martedì 31 maggio 2016

Camillo Sbarbaro.Scarsa lingua di terra che orla il mare




Da "Rimanenze" "All'insegna del pesce d'oro", ed. Scheiwiller, Milano, 1955






Scarsa lingua di terra che orla il mare,
chiude la schiena arida dei monti;
scavata da improvvisi fiumi; morsa
dal sale come anello d'ancoraggio;
percossa dalla fersa; combattuta
dai venti che ti recano dal largo
l'alghe e le procellarie
- ara di pietra sei, tra cielo e mare
levata, dove brucia la canicola
aromi di selvagge erbe.
Liguria,
l'immagine di te sempre nel cuore,
mia terra, porterò, come chi parte
il rozzo scapolare che gli appese
lagrimando la madre.
Ovunque fui
nelle contrade grasse dove l'erba
simula il mare; nelle dolci terre
dove si sfa di tenerezza il cielo
su gli attoniti occhi dei canali
e van femmine molli bilanciando
secchi d'oro sull'omero - dovunque,
mi trapassò di gioia il tuo pensato
aspetto.

Quanto ti camminai ragazzo! Ad ogni
svolto che mi scopriva nuova terra,
in me balzava il cuore di Caboto
il dì che dal malcerto legno scorse
sul mare pieno di meraviglioso
nascere il Capo.

Bocconi mi buttai sui tuoi fonti,
con l'anima e i ginocchi proni, a bere.
Comunicai di te con la farina
della spiga che ti inazzurra i colli,
dimenata e stampata sulla madia,
condita dall'olivo lento, fatta
sapida dal basilico che cresce
nella tegghia e profuma le tue case.
Nei porti delle tue città cercai,
nei fungai delle tue case, l'amore,
nelle fessure dei tuoi vichi.
Bevvi
alla frasca ove sosta il carrettiere,
nella cantina mucida, dal gotto
massiccio, nel cristallo
tolto dalla credenza, il tuo vin aspro
- per mangiare di te, bere di te,
mescolare alla tua vita la mia
caduca.
Marchio d'amore nella carne, varia
come il tuo cielo ebbi da te l'anima,
Liguria, che hai d'inverno
cieli teneri come a primavera.
Brilla tra i fili della pioggia il sole,
bella che ridi
e d'improvviso in lagrime ti sciogli.
Da pause di tepido ingannate,
s'aprono violette frettolose
sulle prode che non profumeranno.

Le petraie ventose dei tuoi monti,
l'ossame dei tuoi greti;
il tuo mare se vi trascina il sole
lo strascico che abbaglia o vi saltella
una manciata fredda di zecchini
le notti che si chiamano le barche;
i tuoi docili clivi, tocchi d'ombra
dall'oliveto pallido, canizie
benedicente a questa atroce terra:
- aspri o soavi, effimeri od eterni,
sei tu, terra, e il tuo mare, i soli volti
che s'affacciano al mio cuore deserto.

Io pagano al tuo nume sacrerei,
Liguria, se campassi della rete,
rosse triglie nell'alga boccheggianti;
o la spalliera di limoni al sole,
avessi l'orto; il testo di garofani,
non altro avessi:
i beni che tu doni ti offrirei.
L'ultimo remo, vecchio marinaio
t'appenderei.

Ché non giovano, a dir di te, parole:
il grido del gabbiano nella schiuma
la collera del mare sugli scogli
è il solo canto che s'accorda a te.

Fossi al tuo sole zolla che germoglia
il filuzzo dell'erba. Fossi pino
abbrancato al tuo tufo, cui nel crine
passa la mano ruvida aquilone.
Grappolo mi cocessi sui tuoi sassi.

1922


lunedì 30 maggio 2016

Camillo Sbarbaro.Donna ferma sul canto della via,



Da "Rimanenze" "All'insegna del pesce d'oro", ed. Scheiwiller, Milano, 1955






Donna ferma sul canto della via,
che dagli occhi non mostri di vedere,
non importuni con la voce, stai
nella strada dorata come pietra
sorda;

fossi la marionetta che s'affloscia
al muro, l'occhio vacuo, le braccia
penzoloni!
e se viva
sei, t'impuntassi innanzi a ognuno, muta
che indica col dito nero il buco
della bocca...

Senza paura non ti guardo, tanto
mi rassomigli; non viva, non morta;
donna ferma sul canto della via.

1922


domenica 29 maggio 2016

Camillo Sbarbaro.Voze,che sciacqui al sole la miseria




Da "Rimanenze" "All'insegna del pesce d'oro", ed. Scheiwiller, Milano, 1955


Voze, che sciacqui al sole la miseria
delle tue poche case, ammonticchiate
come pecore contro l'acquazzone;
e come stipo di riposti lini
sai di spigo, di sale come rete;

- nell'ombra dei tuoi vichi zampa il gallo
presuntuoso; gioca sulla soglia
il piccolo, con dietro il buio e il freddo
della cucina dove su ramaglie
una vecchia si china ad attizzare;
sulle terrazze splende il granoturco
o rosseggia la sorba; nel coltivi
strappati all'avarizia della roccia
i muretti s'ingobbano, si sbriciola
la zolla, cresce storto e nano il fico -

in te, Voze, m'imbatto nel bambino
che fui, nel triste bimbo che cercava
in terra mele mézze per becchime
buttate, tratto dall'oscuro sangue
a mordere ai rifiuti;
nel cattivo celato dietro l'uscio
che godeva d'udirsi per la casa
chiamare da colei che lo crebbe
- e si torceva presso lui non visto,
la povera, le mani e supplicava
che s'andasse con pertiche alla gora.
Quando bevuto egli abbia ad ogni pozza
guasta,
più nessuno lo cerchi per la casa
vuota,
come in madre in te possa rifugiarsi.

Se l'occhio che restò duro per l'uomo
s'inteneriva ai volti della terra,
nella casa di allora che inchiodato
reca sull'uscio il ferro di cavallo
portafortuna,
sérbagli sopra i tetti la finestra
che beve al lapislazzulo laggiù
del mare, si disseta
alla polla perenne dell'ulivo,

Voze, soave nome che si scioglie
in bocca...

1921