AMERICA
SANTA LUCIA
La luna in Derek Walcott
Walcott, figlio di
genitori mulatti, vive in prima persona
il conflitto razziale, diviso tra l’amore per la tradizione europea,
ereditato dal padre, e
l’interesse per le proprie origini africane.
“ Alla stregua del crepuscolo, sospeso tra il giorno e la sera,
l’identità del poeta è come divisa fra i due mondi degli antenati
africani ed europei”.[1]
Ecco allora che nei suoi versi, il moro
perfido, diventa un melanconico,
sensibile al calar della
luna, o al suo scomparire dietro
le nuvole:
Capre e scimmie[2]
… proprio adesso, un vecchio ariete nero
Sta montando la tua bianca pecorella”
Otello
42.Derek Walcott
Walcott è nato nell’isola di Sainta Lucia, a lungo contesa
dagli Inglesi e dai Francesi,
dove – come lui stesso dice-
“il sole , stanco dell’impero, tramonta” e in questa luce
risplendono le Antille, isole- crogiolo, come abbiamo visto,
di lingue, razze e culture;
un ecosistema che sembra
omogeneo e uniforme, ma non lo è. Piuttosto, una variegata
diversità e, al tempo stesso,
una sorta di organismo unitario
nella condivisione della
drammatica esperienza coloniale. E il
discorso coloniale, come sappiamo, non scomparve con il
crollo degli imperi, anzi
l’immaginario -non solo quello
occidentale - continuò ad esserne fortemente connotato.
- L’altra metà del mondo è, dunque, abitata da Calibano[3],
da meticci che vogliono trovare un modo per cantare i propri
uragani[4]
e si nutrono di cultura occidentale per
produrre una
cultura diversa, negra. Ma, al contrario di Césaire, Walcott,
che appartiene ad una
generazione successiva, ha un
atteggiamento di superamento della ferita coloniale. Alla
rabbia sostituisce la
malinconia del senso di perdita, e
mostra
una volontà di mediazione per
il recupero della ricchezza creativa
autoctona, attraverso la possibile fusione dei frammenti delle
diverse culture. La battaglia contro l’impero è, per lui,
soprattutto
culturale e individua, proprio nell’ opera di contaminazione e
collage,
il ruolo dell’intellettuale post-coloniale, come è evidente
nel discorso di accettazione
del Premio Nobel
[…] .
Vergine e
scimmia, fanciulla e moro perfido,
il loro
immortale accoppiamento spezza ancora
[ il nostro
mondo in due
Per voi egli è la bestia sacrificale, mugghiante
[ e pungolata
Un toro nero
avviluppato in nastri del suo sangue
Eppure il furore
che cingeva
Quel turbante
color croco e tramonto nella spada
[ sicura come la
luna
Non era in lui
vendetta razziale nera come pantera
Che invadeva la
camera di lei con l’afrore del muschio
[primitivo
Ma orrore per la
luna che cambiava
Per il guastarsi
di un assoluto,
simile a un
frutto bianco,
maturo e sfatto
per troppe carezze, ma
[doppiamente
dolce.
.
[1] Derek Walcott,”
Capre e scimmie”, da Il naufrago e altre poesie (1965),
in Isole
/Poesie scelte (1948-2004), Adelphi,2009, a cura di Matteo Campagnoli
Forse interessano qui alcuni passaggi del suo famoso
discorso per il
Nobel:
“Rompete
un vaso, e l’amore che rimette insieme
i frammenti è più
forte dell’amore che dava la sua
perfezione per
scontata, quando era integro[….] Questo
rimettere insieme i pezzi rotti è la preoccupazione e il
dolore
delle Antille, […]
L’arte delle Antille è questo riaggiustare le
nostre storie a
pezzi, i nostri cocci di lessico, il nostro
arcipelago che diventa sinonimo di pezzi staccati alla
deriva dal
continente d’origine. E questo è il processo esatto
del fare poesia, o
quello che dovrebbe essere chiamato non fare,
ma ri-fare poesia
[…]
La poesia
è un’isola che si stacca dal continente. La lingua
originale si
dissolve per la fatica della distanza come la nebbia
quando cerca di
attraversare l’oceano, ma questo processo
di ri-nominare, di trovare nuove metafore, è lo
stesso processo
che il poeta
affronta ogni mattina del suo giorno di lavoro,
costruendo i suoi
strumenti come Robinson, mettendo insieme
parole per
necessità […]
Questa è
la base dell’esperienza delle Antille, questo
naufragio di
frammenti, questi echi, questi cocci di un
enorme vocabolario
tribale, queste tradizioni parzialmente
ricordate, e non morte, ma forti”.
Insomma all’opera di guastatore di Césaire, -
Walcott
sostituisce,
dunque, la sua opera di pacificazione e di
contaminazione
del linguaggio, nella convinzione che
“[...]il linguaggio è qualcosa che supera in grandezza
i
propri padroni
e i propri servitori[...] e la poesia, che ne
è la massima espressione, arricchisce gli uni e
gli altri e
questo diventa
un modo per conquistare un’identità che
scavalca tutti
i confini.[...]il poeta è davvero come un uccello
che canta senza guardare il ramo su cui si posa,
qualunque
sia il ramo, sperando che ci sia qualcuno ad
ascoltarlo, anche
se sono
soltanto le foglie[5]”. In”326 poesie dal
mondo per
una storia d’amore”
In”326 poesie dal
mondo per una storia d’amore”
Onyx ed.e.book
a cura di Maria Gabriella Bruni e Isabella
Nicchiarelli
[1] Cfr. Cristina Benicchi, La letteratura caraibica contemporanea, Bononia University Press,
2010; pagg.141-142
[3] Cfr. La Tempesta
di William Shakespeare. Calibano, lo schiavo selvaggio e ribelle, e Ariel,
spirito dell’aria, sono i due servi di Prospero, signore dell’isola.
[4] Cfr.Braithwaite: ”Le popolazioni caraibiche erano obbligate a usare una lingua buona per
poter descrivere una nevicata, ma non un uragano”.
[5] Cfr Iosif Brodskij, p. 20, in D.W, “Mappa del Nuovo Mondo”, op. cit.
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