XXVII.USA
60.Sylvia Plath
(Boston,
27 ottobre 1932 – Londra, 11 febbraio 1963)
è
stata una poetessa e scrittrice statunitense. Conosciuta
per
le sue poesie, ha anche scritto il romanzo semi-autobiografico
La campana di
vetro (The Bell Jar) sotto lo pseudonimo di Victoria Lucas.
a.Finisterre
Qui finiva la terra: le estreme dita, nocchiute e reumatiche,
rattrappite sul nulla. Ammonitori
neri dirupi, e il mare che esplode
senza fondo, o alcunché d’altro al di là,
bianco di visi annegati.
Adesso è soltanto tetro, un ammasso di rocce
soldati sbandati di vecchie, confuse guerre.
Il mare gli cannoneggia gli orecchi, ma loro non mollano.
Altre rocce nascondono i loro rancori sott’acqua.
Il precipizio ha un orlo di stelle, trifogli e campanule
ricamate si direbbe da dita, prossime a morte,
piccole al punto che quasi sfuggono alle brume.
Le brume sono parte dell’antico armamentario,
anime, arrotolate nel cupo lamento del mare.
Cancellano le rocce, poi le rifanno alla luce.
Salgono senza speranza, come sospiri.
Ci passo in mezzo, mi riempiono la bocca di cotone.
E quando me ne libero sono imperlata di lacrime.
Nostra Signora dei Naufraghi va verso l’orizzonte,
le sue vesti di marmo sventolanti all’indietro come ali.
Assorto a lei s’inginocchia un marinaio di marmo
a cui s’inginocchia la donna vestita di nero
pregando al monumento del marinaio che prega.
Nostra Signora dei Naufraghi è tre volte il naturale,
e dolci le sue labbra di celestialità.
Non sente quel che dicono il marinaio o la donna.
È tutta presa dalla bella informità del mare.
Nastri color gabbiano svolazzano alla brezza
accanto ai chioschi di cartoline illustrate.
I contadini li ancorano a conchiglie. “Comprate”
dicono, “i bei gioielli che il mare nasconde,
piccoli gusci che fanno bamboline e collane.
Non vengono dalla Baia dei Morti laggiù,
ma da un altro posto, azzurro e tropicale,
dove non siamo mai stati.
Comprate le nostre frittelle, mangiatele ancora calde”.
(Sylvia Plath, Attraverso l'acqua)
"Qui finiva la terra", collocato da Sylvia Plath
all'inizio
dei
versi per creare un "diversivo", quasi a voler parlar d’altro
e
distrarre dal momento "estatico" da lei
vissuto.Interessante
l’uso
dei tempi verbali ancora per distinguere la ricerca di una
risposta
dalla meta ,che,peraltro, realizza l’assenza,una realtà irrisolta.
È
come se le sue ultime vette,ovvero vite scalate, ancora una volta
fossero rimaste consunte e sfiorite,
irrigidite sul baratro di uno spoglio
orizzonte.
Un incipit che ha il senso di intimo e aperto dialogo
con
il suo io, sempre esposto alla vertigine provocata dalla vita stessa
non
vuol dire che Sylvia Plath si sia persa nell'emozione suscitata
dalla
vista del paesaggio circostante. Piuttosto, proprio la visione
di
quel panorama, la sua particolare conformazione, le luci e i suoni
che
gli appartengono, hanno spinto la sua fantasia a tuffarsi nel mare
della
logica.Quella stessa assenza di cui ha sempre avuto sentore, e
che
ancora le lascia dubbi e perplessità, una gelida devastante sensazione
di
"sconcerto". La vediamo agitarsi tra cupe divinazioni e un
moltiplicarsi
di
ipotesi che, ad una ad una, precipitano nell'abisso già presupposto e
"sentito"
dalla sua coscienza". Questa sottile metafora, fatta
d'emozione e
ragione,
di misticismo e scienza,finisce per apparentare Sylvia Plath,
ai
grandi pensatori che si sono interessati all'essenza e alle ragioni profonde
dell'essere,
il divenire, la dialettica, l'ontologia, le possibilità conoscitive
dell'uomo.
Sylvia Plath, che sente e percepisce l' "altrove", la perfezione
del
cerchio che salva ed emancipa, grida con tutta la forza del cuore
la
sua verità. E tale verità è quella "del non sapere", del
"mettersi in
discussione",
"della continua ricerca", perchè solo riuscendo a mediare
tra
le dimensioni conosciute e quelle ignote, si può coltivare un nuovo fiore,
il
fiore della saggezza e della prudenza, il fiore che libera dalle zavorre e
dalle
finzioni. Sylvia Plath gestisce il filo della sua vita, può scrutare
il
mondo dall'alto del suo trono celeste, osservare quanti inconsapevolmente
finiscono
per immiserire le loro già sbiadite esistenze: da sottolineare
il
contrasto tra il bianco "color
gabbiano" e i colori delle "cartoline illustrate",
ma
soprattutto come quei "nastri" servano per fermare le
fugaci luci e
gli
effimeri colori delle "cartoline" che il vento scuote,
quasi volesse
smaterializzarle.
D'altra parte nelle "brume" è velato un richiamo al
mito,
nello
specifico alle Moire, le tre figlie di Zeus e di Temi: Cloto
filava
lo
"stame" della vita, Lachesi lo avvolgeva sul fuso e stabiliva quanto
filo
spettasse
a ogni uomo, Atropo con le sue cesoie, lo recideva inesorabilmente.
Ad
Atropo, colei cui non si può sfuggire, la dea "inflessibile", era
assegnato
il
compito di recidere il filo della vita del singolo, decretandone il momento
della
morte. Alla luce di questo "indizio" mitologico i versi "Ci
passo in mezzo,
mi riempiono la bocca di cotone. E
quando me ne libero sono imperlata di
lacrime"cominciano ad
acquistare senso. Sylvia Plath "sente" avvicinarsi la
prossima
fine (i fili "di cotone" ne sono la testimonianza e si
scioglie in un
pianto trasparente e lucido, un pianto
liberatorio: con la morte finiranno
le sue pene, la sua anima sarà libera di
ascendere e librarsi nella freschezza
di
nuovi orizzonti. La raggiunta consapevolezza della turpitudine che sovrasta
la vita terrena rende Sylvia Plath padrona
assoluta della sua essenza, ormai,
lei stessa mito, può sedere al fianco degli
déi dell'Olimpo: ed in lei
riconosciamo
"Nostra Signora dei Naufraghi (che) va verso
l'orizzonte,
le sue vesti di marmo sventolanti all'indietro come ali". Sylvia Plath
assurge
al regno degli dèi, riunificando in se stessa i poteri soprannaturali
di
Cloto, Lachesi e Atropo;con lirico trasporto: "Nostra Signora
dei Naufraghi è tre volte il naturale, e dolci le sue labbra di
celestialità.
Non sente quel che dicono il marinaio o la donna - è tutta presa dalla
bella informità del mare".e da una parte, si realizza l'identificazione
con
la natura, dall'altra, si sviluppa un superamento in termini di perfezione,
perché
all'insondabile e assurda realtà - che disorienta la mente e l'anima,
elargendo odiose e amare gocce di pianto -
Sylvia Plath oppone la sua libera
essenza e la sua "scienza del
tutto". A contrasto miseri individui cercano
di
utilizzare per fini utilitaristici ciò che invece simboleggia un disinteressato
e sincero amore per la conoscenza. Si tratta ancora
di quei "Nastri color
gabbiano" trattenuti a terra, quasi rapiti e immobilizzati dagli uomini,
tanto
incapaci di vivere la bellezza e la leggerezza dell'esistenza,
di immergersi nella luce e partecipare
profondamente all'armonia
che è dovunque.. L'immagine del volo scopre la
totale assimilazione
tra
l'animo di Sylvia Plath, che rappresenta in versi le sue aspirazioni,
e
la natura del gabbiano pronto a librarsi in uno spazio rivelatore.. Ma
la
realtà di questa vita si oppone alla perfezione, perchè quei
"Nastri color gabbiano", saldamente fissati dalle avide mani
dell'uomo,
possono
solo sventolare "alla brezza" che irrompe nell'aria: un
flusso
bruciante
sembra accompagnare le discese e le risalite delle bianche ali,
ultimi
emblemi di libertà. Questa condizione esterna sospende quasi il volo
mentale,
perché l'orrida umana realtà innalza le sue terribili lance contro
i
desideri e le aspettative, finendo per minare la possibilità stessa di una
rinascita
. I versi di chiusura, che sono invocazione alla comprensione,
sanciscono
la posizione assunta da Sylvia Plath, dell'io che si interroga
allo
specchio e si ritrova. Proprio la capacità di comprendere e
rappresentare
la monotonia della vita terrena salva e conduce
sui
sentieri dell'oltre. Già l'oltre, l'impercettibile oltre che, ancor prima
d'essere
fuori dal nostro io, è esso stesso umana sostanza, essenza
di
liquida roccia eterna che si è liberata negli oceani .
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