giovedì 17 aprile 2014

Poesia boliviana contemporanea.E.Mitre.14



                                      





 
Eduardo Mitre, Versi d'autunno (Venezia, Sinopia, 2005)                                  


Postfazione di Luis H. Antezana



                                                             


Procedendo dall’ampio orizzonte della poesia di Eduardo Mitre, si noterà come Versi d’autunno si apra con una delle costanti dell’autore, quella erotica, sempre coltivata fin dal primo libro di versi (Elegía a una muchacha, 1965). Senza forzare troppo, le poesie che vanno da “Umida fiamma” fino a “Epilogo” potrebbero essere considerate come la sezione (piú) amorosa o innamorata della raccolta. Forse è bene segnalare il carattere crepuscolare con cui, in armonia con il tono generale della medesima, si elaborano e si annodano alcuni versi – e corpi – di questa sezione inaugurale.
D’altra parte, quando si riflette sulla poesia di Mitre, è inevitabile rilevare la sua esplicita attenzione all’atto dello scrivere. Le tensioni, i limiti, le capacità, le possibilità e le impossibilità delle parole – della poesia, di ogni singola composizione – di fronte al mondo e ai fatti costituiscono un’altra costante della sua scrittura. Le sue linee (d’autunno) suggeriscono sempre, o implicano, i suoi versi, mentre i suoi spazi suggeriscono o implicano, sempre, la pagina bianca in cui sono inscritti.
Cosí come l’erotismo, anche questa seconda costante funge da richiamo per l’intera opera poetica di Mitre. En passant, si potrebbe affermare che corpi e versi rappresentano le due facce della stessa medaglia (“<>”). In Versi d’autunno è agevole scorgere moltissime sfumature di tale attenzione metapoetica, ma, per cominciare con la dimensione del presente quale orizzonte della riflessione, si potrebbe indugiare sulle tensioni tra i fatti e la possibilità (o l’impossibilità) di riscattarli attraverso il ricordo – attraverso la memoria – per mezzo della scrittura. In effetti, i Versi d’autunno sono popolati di ricordi, e molte poesie sono, nelle immagini suscitate dall’autore, veri e propri ponti tra la sua memoria e il presente. Forse, una delle composizioni piú esplicite è “Tutti i giochi il gioco”. In questo testo, gli interlocutori (Daniel Zambrano e Santiago) permettono non solo la ricerca e il re-incontro del gioco (il calcio) nei versi, ma anche di evocare l’Aurora f.c. di Cochabamba, che forma parte della identità tifosa* di Eduardo Mitre. Il ricordo e la sua evocazione presuppongono, come sappiamo, il passare del tempo; in un tale trascorrere, nulla è piú inquieto dell’istante e nulla, forse, è piú totale… se solo si potesse catturarlo. “Lo sguardo” e la sua “Coda” potrebbero essere lette sotto questo (fuggevole) orizzonte, nella misura in cui gli occhi guardano o hanno guardato passare quel che accade o è accaduto. Con un dubbio, nel caso di Mitre: si è mai dato o si potrà mai dare il caso di vedere « il segreto / volto dell’essere? ». L’interrogativo è suo.
Nonostante i movimenti, « partenze e arrivi, / addii e ritorni », le linee del tempo implicano le permanenze, molte delle quali intimamente legate alle possibilità denominative del linguaggio, della poesia. “Alla poesia” rende esplicite tali possibilità assumendo, nel caso specifico, non tanto la scrittura in sé quanto la mitica relazione cratileana tra nome, voce e realtà; anche “Compito” scommette su una simile possibilità, benché, in quest’ultimo caso, il mezzo sia il fine stesso, vale a dire, la scrittura. Tra queste presenze ce n’è una che, per Mitre, rimane sempre inalterabile (« presente »), al punto che i nomi come gli sguardi, anche i piú spenti, vi ritrovano il loro luogo propizio: si tratta di “Kerime”, poesia dedicata – già nel titolo – a sua madre.
Ho ricordato la possibilità cratileana di dare nome alle cose. La poesia di Mitre tende esattamente, malgrado il passare degli istanti, all’atto del nominare. A tale riguardo, un plausibile modello del suo agire potrebbe essere il seguente: qui ci sono le cose, esse fanno ciò che devono fare, e tuttavia non dicono. Mitre osserverebbe che esse stanno nel silenzio, o, se si preferisce, nella sua pienezza. Ma dal silenzio sorgono le parole, come da una pagina in bianco le parole scritte – non per nulla il silenzio è « la prateria dove pascolano le parole ». In “Presenza”, è questa operazione che ci viene mostrata (cfr. anche “Lo spazio”). Dire equivarrebbe, grosso modo, non tanto a rompere quanto a scolpire, a intagliare il silenzio. Di simili percorsi la poesia di Mitre si avvale per avvicinarsi agli esseri e alle cose (esistono altri modelli possibili: la pagina bianca è, ripeto, uno dei piú eloquenti). In Versi d’autunno c’è una poesia che concentra questo tipo di compito moltiplicandone la portata; mi riferisco alle « pere » di “Le Elette”. Possiamo assumere, seguendo il modello, che le pere se ne stanno comodamente afferrate al silenzio della tela del quadro di Ricardo Pérez Alcalá, che le ospita. Il testo di Mitre si avvicina al quadro e non può che ribadire la felicità donata a quei frutti dalla mano dell’artista; e sottolinea che lí, nel quadro, le pere potranno addirittura « attraversare l’inverno » senza patire alcun danno. Credo inoltre che nelle prime strofe la poesia alluda alla parabola di Zeuxis e Parrahsios, (* 1) poiché « invano le parole / le bramano e le punzecchiano » (il corsivo è mio), e che non debba essere dimenticata l’interazione tra gli oggetti e l’atto della scrittura. Le pere, infatti, vengono sollecitate « invano »: resistono alla seduzione e alla fin fine « non scenderanno sulla pagina ». In varie occasioni Mitre si è avvicinato a questo dilemma di antica provenienza platonica, ovvero all’impossibilità di pervenire all’originale per mezzo della copia; anche se, in questo caso, le pere non hanno bisogno della pienezza del mondo archetipico, ma, piú concretamente, è a loro sufficiente restare nel quadro di Pérez Alcalá. Se fosse lecito suddividere Versi d’autunno in parti isolate, potremmo sostenere che le poesie comprese tra “Le rocce” e “Lo spazio”, assieme a “Le Elette”, frequentano questa tendenza nominativa e che, in modi diversi, inscrivono la possibilità o l’impossibilità del lavoro poetico di fronte al mondo delle cose imperturbabili.
All’interno di tale ipotetica sezione della raccolta, dedicata agli esseri e alle cose, vi è peraltro un testo che, invece di mettere in risalto la pienezza del proprio oggetto poetico, ne lamenta la fine insieme con l’impossibilità di catturarlo per mezzo delle parole. Quest’oggetto è una ‘cosa’, certamente, ma è anche un ricordo perduto. La composizione a cui si allude è “L’albero”. Conoscere il contesto della sua genesi ci sarà forse utile per comprenderne (parzialmente) la portata. C’era da sempre un albero nel cortile posteriore della casa di famiglia dei Mitre, a Cochabamba, nella calle Venezuela. Il lettore può immaginarsi il poeta e i suoi fratelli crescere con lui, giocargli intorno e, naturalmente, godere della sua sempre maggiore offerta d’ombra. Poi, per motivi di confini tra proprietà limitrofe, l’albero fu sacrificato. Ecco perché alla fine, senza di lui, soltanto il sole regna in quel cielo.
Quest’ultima composizione conserva qualcosa dell’elegia. Mitre, sia detto per inciso, a distanza di alcuni anni ha scritto due delle elegie piú degne di nota della poesia boliviana: “Yaba Alberto” e “El peregrino y la ausencia”.3 In Versi d’autunno ritroviamo altre due ‘elegie’ (per continuare a usare questa categoria ipotetica) le quali, ciascuna a suo modo, illustrano benissimo quanto i versi di Mitre siano capaci di evocare gli assenti – i suoi assenti. Nel primo caso si tratta di “Reincontro”, dicato alla memoria di Marcelo Quiroga Santa Cruz. Due scene contraddistinguono questa ‘elegia’: una, che contiene solo ‘indifferenze’, e poi una seconda che, come una rivelazione, permette il reincontro  «con te e con gli assenti ». Tutto ciò, su uno sfondo caratterizzato dalla presenza della natura (i suoi esseri e i suoi silenzi che, nel finale, si modificano). L’altra ‘elegia’ si avvicina alla preghiera, alla supplica, e si rivolge a “Susana San Juan”, il personaggio del romanzo Pedro Páramo di Juan Rulfo. Come si sa, nel romanzo di Rulfo sono i morti ad avere la parola. Avvicinarsi a Susana San Juan significa andare verso l’assenza e la morte, verso i morti. La preghiera lega questa poesia anche all’assenza di Rulfo e, piú sottilmente, alla già ricordata elegia “Yaba Alberto” :

O dimmi almeno
se nel vicino paese dei morti
si sente e se tu ascolti
– magari assieme a Juan Rulfo
e a Yaba Alberto –
la mia fervente supplica.

“Susana San Juan” rappresenta una tappa o, se si preferisce, l’articolazione di una ricerca piú ampia, culminata in Carta a la inolvidable; componimento incluso anche in Camino de cualquier parte. Mitre ha scritto diverse poesie intorno a questo personaggio. La versione finale è la piú estesa, ma mantiene lo stesso tono dialogico, esaltando il proprio carattere di ‘cosa scritta’ per il fatto di essere una lettera… « alla indimenticabile ». Ripercorrendo l’opera
 di Mitre, è facile notare come la ‘letteratura’ circoli profusamente nei suoi testi, con diverse sfumature comprese
 tra i gradi dell’allusione, della citazione, dell’epigrafe, fino all’omaggio diretto sia ai personaggi letterari che ai
loro autori. A volte, i fili dispiegati sono molteplici. Per esempio, un’altra tappa della sua ricerca – definiamola
cosí – di Susana San Juan entra in dialogo con una celebre poesia di Alejandra Pizarnik; ove colei che invia il
testo sarebbe proprio l’insigne e inquietante poeta argentina. La poesia, intitolata “Telegramma”,recita cosí:

Dimmi, sorella Susana San Juan:
Chi hai incontrato? Chi stava

a fianco o sotto il tuo nome,
sul cuscino di pietra e notte?

Ti è accaduto come a me?
Rispondimi.
Alejandra Pizarnik

In Versi d’autunno, altro esempio appartenente allo stesso filone, da una parte abbiamo la poesia esplicitamente dedicata al personaggio di Juan Rulfo, ma ritroviamo anche Ulisse e Itaca (con Penelope e Telemaco) in “Parabola”. Lette con attenzione, le poesie di Mitre tendono quasi sempre fili intertestuali verso altre opere e autori che, ovviamente, egli ammira o ama. Talvolta – come in “Versi d’autunno” che dà il titolo alla raccolta – il poeta cede l’ultima parola a uno dei suoi compagni di viaggio; infatti la poesia termina cosí:

I versi di Wang Wei,
ne stacco uno,
lo innesto e prende bene.




 


                                    









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