LA NOTTE.14.
Faust era
giovane e bello, aveva i capelli ricciuti. Le bolognesi somigliavano allora a
medaglie siracusane e il taglio dei loro occhi era tanto perfetto che amavano
sembrare immobili a contrastare armoniosamente coi lunghi riccioli bruni. Era
facile incontrarle la sera per le vie cupe (la luna illuminava allora le
strade) e Faust alzava gli occhi ai comignoli delle case che nella luce della
sembravano punti interrogativi e restava pensieroso allo strisciare dei loro
passi che si attenuavano. Dalla vecchia taverna a volte che raccoglieva gli
scolari gli piaceva udire tra i calmi conversari dell’inverno bolognese,
frigido e nebuloso come il suo, e lo schioccare dei ciocchi e i guizzi della
fiamma sull’ocra delle volte i passi frettolosi sotto gli archi prossimi. Amava
allora raccogliersi in un canto mentre la giovine ostessa, rosso il guarnello e
le belle gote sotto la pettinatura fumosa passava e ripassava davanti a lui.
Faust era giovane e bello. In un giorno come quello, dalla saletta tappezzata,
tra i ritornelli degli organi automatici e una decorazione floreale, dalla
saletta udivo la folla scorrere e i rumori cupi dell’inverno. Oh! ricordo!: ero
giovine, la mano non mai quieta poggiata a sostenere il viso indeciso, gentile
di ansia e di stanchezza. Prestavo allora il mio enigma alle sartine levigate e
flessuose, consacrate dalla mia ansia del supremo amore, dall’ansia della mia
fanciullezza tormentosa assetata. Tutto era mistero per la mia fede, la mia
vita era tutta «un’ansia del segreto delle stelle, tutta un chinarsi
sull’abisso» . Ero bello di tormento, inquieto pallido assetato errante dietro
le larve del mistero. Poi fuggii. Mi persi per il tumulto delle città
colossali, vidi le bianche cattedrali levarsi congerie enorme di fede e di
sogno colle mille punte nel cielo, vidi le Alpi levarsi ancora come più grandi
cattedrali, e piene delle grandi ombre verdi degli abeti, e piene della melodia
dei torrenti di cui udivo il canto nascente dall’infinito del sogno. Lassù tra
gli abeti fumosi nella nebbia, tra i mille e mille ticchettìi le mille voci del
silenzio svelata una giovine luce tra i tronchi, per sentieri di chiarìe
salivo: salivo alle Alpi, sullo sfondo bianco delicato mistero. Laghi, lassù
tra gli scogli chiare gore vegliate dal sorriso del sogno, le chiare gore i
laghi estatici dell’oblio che tu Leonardo fingevi. Il torrente mi raccontava
oscuramente la storia. Io fisso tra le lance immobili degli abeti credendo a
tratti vagare una nuova melodia selvaggia e pure triste forse fissavo le nubi
che sembravano attardarsi curiose un istante su quel paesaggio profondo e
spiarlo e svanire dietro le lancie immobili degli abeti. E povero, ignudo,
felice di essere povero ignudo, di riflettere un istante il paesaggio quale un
ricordo incantevole ed orrido in fondo al mio cuore salivo: e giunsi giunsi là
fino dove le nevi delle Alpi mi sbarravano il cammino. Una fanciulla nel
torrente lavava, lavava e cantava nelle nevi delle bianche Alpi. Si volse, mi
accolse, nella notte mi amò. E ancora sullo sfondo le Alpi il bianco delicato
mistero, nel mio ricordo s’accese la purità della lampada stellare, brillò la
luce della sera d’amore.
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