Un uomo che si ferma a cantare lo strazio di una condanna a morte:
C.P. Kavafis
27 GIUGNO 1906, DUE DEL POMERIGGIO*
Quando alla forca lo portarono i Cristiani
– diciassett’anni, un ragazzo innocente –
la madre che si trascinava
presso la forca e si batteva il petto tra la polvere
sotto il sole feroce del meriggio,
ora ululava come un lupo grida belluine,
ora spossata martire biascicava un lamento:
«Diciassett’anni soli mi sei vissuto figlio mio».
Gli fecero salire la scala della forca e gli passarono
la corda al collo e lo strozzarono
– diciassett’anni , un ragazzo innocente –
e penzolò nel vuoto
tra gli atroci spasmi dell’agonia quel corpo
d’efebo così bello: si rotolava allora quella madre martire nella polvere
e nel suo pianto non parlava più d’anni: «Diciassette
giorni soltanto» piangeva «diciassette
giorni soltanto io t’ho goduto, figlio mio».
– diciassett’anni, un ragazzo innocente –
la madre che si trascinava
presso la forca e si batteva il petto tra la polvere
sotto il sole feroce del meriggio,
ora ululava come un lupo grida belluine,
ora spossata martire biascicava un lamento:
«Diciassett’anni soli mi sei vissuto figlio mio».
Gli fecero salire la scala della forca e gli passarono
la corda al collo e lo strozzarono
– diciassett’anni , un ragazzo innocente –
e penzolò nel vuoto
tra gli atroci spasmi dell’agonia quel corpo
d’efebo così bello: si rotolava allora quella madre martire nella polvere
e nel suo pianto non parlava più d’anni: «Diciassette
giorni soltanto» piangeva «diciassette
giorni soltanto io t’ho goduto, figlio mio».
(continua)
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