Difficile definire un’anima buttandolgli addosso giudizi troppo veloci; il rischio è di perdere le sfumature di cui ci arricchisce ogni quotidianità,a maggior ragione quella di un poeta: ombre che velano un’esistenza a tratti abbagliata da schegge di luci.La ricerca,nella voce di un poeta della sua singolarità, che lo consegna al futuro, è una inconsapevole violenza che per amore si compie sull’eredità che le sue mani ci hanno lasciato.
Le mani, già…le sue mani…
“Le mie mani
aprono la cortina del tuo essere
ti vestono con altra nudità
scoprono i corpi del tuo corpo
le mie mani
inventano un altro corpo al tuo corpo […]”
(da Toccare, traduzione di G. Bellini)
aprono la cortina del tuo essere
ti vestono con altra nudità
scoprono i corpi del tuo corpo
le mie mani
inventano un altro corpo al tuo corpo […]”
(da Toccare, traduzione di G. Bellini)
perché mani come
quelle di Octavio Paz hanno
carezzato, reinventandolo, il volto fiero della letteratura messicana.
Nasce il 31 marzo
1914 a Città del Messico, pubblica giovanissimo, su El Nacional, alcuni testi che riflettono le idee progressiste del
padre .Nel 1933 esce la sua prima raccolta in versi, Luna silvestre,
seguita, tre anni dopo, da Non passeranno! - sulla
guerra civile spagnola, cui prese parte da studente marxista, militando tra le
file dei repubblicani - e negli anni
successivi Sotto la tua ombra chiara
e Radici
dell’uomo, Fra la pietra e il fiore, Pietra di sole,
Libertà sulla parola, La stazione violenta, Salamandra, Vento intero, Bianco,
Versante Est, Poesie (1935-1975),
le sue opere principali.Politicamente impegnato, dalla Spagna in cui aveva
vissuto dal 1936 al 1939 prendendo parte alla rivoluzione, Paz tornò in Messico
dove collaborò alla nascita del giornale di sinistra El Popular, che
abbandonò all’indomani del patto di non aggressione firmato dall’Unione
Sovietica a favore della Germania nazista.Dopo un periodo negli Stati Uniti,
entrò, nel 1944, nel corpo diplomatico messicano e a quel periodo risale la
pubblicazione del suo saggio più noto, Il labirinto della solitudine, acuta
analisi della storia messicana, come realtà sotterranea, che affonda le radici
nel suo stesso passato pre-colombiano; Aquila o sole?, di impronta
nettamente surrealista, e L’arco e la lira, limpida
espressione del proprio mondo poetico, da lui considerato quasi una terra incontaminata dal Tempo e dalla Storia.
Divenuto ambasciatore in India, si dimise dall’incarico nel 1968 per protesta
contro il governo messicano, quando una manifestazione di studenti a Città del
Messico, poco prima dell’inizio dei giochi olimpici, fu tramutata in una
sanguinosissima repressione dall’esercito regolare.
I riconoscimenti
per la sua produzione arrivarono prestigiosi, ricevette premi quali l’ Ollin
Yoliztli e il Miguel
de Cervantes, e nel 1990 il Nobel per la letteratura, premio
che nel 1982 era stato conferito ad un altro celebre sudamericano, Gabriel
Garcìa Marquez. Nel 1991 Octavio Paz iniziò la pubblicazione delle sue Opere
complete in 15 volumi; il 17 dicembre 1997, pochi mesi prima della
morte, inaugurò la Fondazione che porta il suo nome.
Personalità
eclettica e animo diretto e schietto, Paz traduce in poesia le incandescenze di
una vita goduta e patita, ma costantemente priva di compromessi con i regimi di
turno. Rimangono, tra i suoi versi, sparute parole-precipizio consumate da così
accanite limature da lasciarle levigate ed essenziali, eppure ruvide
nell’insieme ossimorico dei testi che sembrano mutare a ogni nuova lettura,capaci
di rovesciare i significati nei
confronti dei lettori e persino delle mani che un tempo li hanno partoriti:
Rigirale,
afferrale per la coda (strillate, puttane),
frustale,
metti zucchero in bocca alle recalcitranti,
gonfiale, palloni, bucale,
succhiagli il sangue e il midollo,
seccale,
castrale,
montale, gallo galante,
torcigli il collo, cuoco,
spennale,
strippale, toro,
bue, trascinale,
falle, poeta,
fa che si inghiottano tutte le loro parole.
(Le parole, da Calamidades y milagros, traduzione di Maria Pia Lamberti)
afferrale per la coda (strillate, puttane),
frustale,
metti zucchero in bocca alle recalcitranti,
gonfiale, palloni, bucale,
succhiagli il sangue e il midollo,
seccale,
castrale,
montale, gallo galante,
torcigli il collo, cuoco,
spennale,
strippale, toro,
bue, trascinale,
falle, poeta,
fa che si inghiottano tutte le loro parole.
(Le parole, da Calamidades y milagros, traduzione di Maria Pia Lamberti)
L’Eldorado si
trasforma in una terra di nessuno dove scorre solo il tempo del rimpianto che
Paz rivendica esclusivo per la terra natia
nonostante le numerose tappe cosmopolite molto amate del suo percorso :
“L’uomo è solo dovunque. Ma la solitudine del messicano, sotto la grande
notte di pietra di un altipiano ancora abitato da divinità mai sazie, è molto
diversa da quella dell’americano del nord, che vaga in un mondo astratto di
macchinari, di concittadini e di precetti morali. Nella valle del Messico
l’uomo si sente come sospeso tra cielo e terra e oscilla fra forze opposte e
potenze contrastanti, e occhi pietrificati e bocche pronte a divorarlo […]”
(da: Il
labirinto della solitudine)
E un silenzio
messicano si espone oltre il bordo di un dirupo quotidiano e tiene in
equilibrio fragile una forza immaginifica e una voce che si genera da sé
attraverso gli occhi neonati dei lettori.
Rumori confusi, incerto chiarore.
Inizia un nuovo giorno,
è una stanza in penombra
e due corpi distesi.
Nella fronte mi perdo
In un pianoro vuoto.
Già le ore affilano i rasoi.
Ma al mio fianco tu respiri;
intimamente mia eppur remota
fluisci e non ti muovi.
Inaccessibile se ti penso,
con gli occhi ti tocco,
ti guardo con le mani.
I sogni ci separano
Ed il sangue ci unisce:
siamo un fiume di palpiti.
Sotto le tue palpebre matura
Il seme del sole.
Il mondo
Non è ancora reale,
il tempo è dubbio:
solo il calore della tua pelle è vero.
Nel tuo respiro ascolto
La marea dell’essere,
la sillaba scordata del Principio.
(Prima del principio, traduzione di M. P. Lamberti)
Inizia un nuovo giorno,
è una stanza in penombra
e due corpi distesi.
Nella fronte mi perdo
In un pianoro vuoto.
Già le ore affilano i rasoi.
Ma al mio fianco tu respiri;
intimamente mia eppur remota
fluisci e non ti muovi.
Inaccessibile se ti penso,
con gli occhi ti tocco,
ti guardo con le mani.
I sogni ci separano
Ed il sangue ci unisce:
siamo un fiume di palpiti.
Sotto le tue palpebre matura
Il seme del sole.
Il mondo
Non è ancora reale,
il tempo è dubbio:
solo il calore della tua pelle è vero.
Nel tuo respiro ascolto
La marea dell’essere,
la sillaba scordata del Principio.
(Prima del principio, traduzione di M. P. Lamberti)
“[…]vado per il tuo corpo
come per il mondo,
il tuo ventre è una spiaggia soleggiata,
i tuoi seni due chiese dove il sangue
celebra i suoi misteri paralleli,
i miei sguardi ti coprono come edera,
sei una città che il mare assedia,
una muraglia che la luce divide
in due metà color di pesca,
un luogo di sale, roccia e uccelli
sotto la legge del meriggio assorto,
vestita del colore dei miei desideri
vai nuda come il mio pensiero […]
(da Pietra di sole, traduzione di G. Bellini)
il tuo ventre è una spiaggia soleggiata,
i tuoi seni due chiese dove il sangue
celebra i suoi misteri paralleli,
i miei sguardi ti coprono come edera,
sei una città che il mare assedia,
una muraglia che la luce divide
in due metà color di pesca,
un luogo di sale, roccia e uccelli
sotto la legge del meriggio assorto,
vestita del colore dei miei desideri
vai nuda come il mio pensiero […]
(da Pietra di sole, traduzione di G. Bellini)
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