sabato 3 ottobre 2020

IV.USA.9.Emily Dickinson .b.Fortitudine incarnata.







IV.USA

9. Emily Elizabeth Dickinson nota come Emily Dickinson

(Amherst-Massachusetts-10 dicembre1830-Amherst,
15 maggio 1886.)è  stata una poetessa statunitense,
considerata tra i maggiori lirici moderni[1].
Nacque nel 1830 ad Amherst
da una famiglia borghese di tradizioni puritane.
I Dickinson erano conosciuti per il sostegno fornito
alle istituzioni scolastiche locali.
Suo nonno, Samuel Fowler Dickinson,
fu uno dei fondatori dello Amherst College,
mentre il padre ricoprì la funzione di legale 
e tesoriere dell'Istituto; inoltre ebbe importanti 
incarichi presso il Tribunale Generale del
 Massachusetts, il Senato dello Stato e la Camera
 dei rappresentanti  degli Stati Uniti.

 
b. Fortitudine incarnata

È qui deposta
nelle agitate sezioni
del temibile Mare -
vocio del felice
cavillo dell'ardito
canuto il godimento
ma il Mare è vecchio.
Edificio dell'Oceano
le tue tumultuose Stanze
mi soddisfano in ogni caso
molto più delle tombe.


(Emily Dickinson)

In un mio precedente articolo su Margutte avevo indagato
la presenza della Natura nella poesia di Emily Dickinson
(Amherst, Massachussets, 1830-1886), attraverso i riferimenti
ai quattro elementi naturali (aria acqua terra fuoco) che gli
antichi filosofi greci, e dopo di loro gli alchimisti rinascimentali,
consideravano l’origine di tutto, i primordi delle cose; e di cui
nel Novecento la psicanalisi junghiana ha sottolineato il valore
simbolico, inconscio, che esercita un fascino potente sull’uomo.
Riprendo adesso da quel lavoro, ampliandole, le considerazioni
relative all’elemento acqua nella produzione della poetessa
americana, prendendo in esame solo una ventina di liriche,
senza alcuna pretesa  di esaustività.
L’analisi dei testi della Dickinson in cui compare il tema dell’acqua
non può che cominciare dal perentorio incipit della lirica 135: «L’acqua
è insegnata dalla sete». L’originalità linguistica di questo verso è data
dall’uso passivo del verbo “insegnare”, riferito all’acqua: ma come si
fa a “insegnare l’acqua”? La condensazione espressiva è altissima, al
limite dell’errore semantico, ma non c’è lettore che non capisca il
significato della frase e dell’intera lirica, costruita sull’enumerazione
di coppie di antitesi: acqua/sete, terra/oceani, estasi/spasimo, pace/
racconti di battaglie, amore/impronta di memoria, uccelli/neve. A
rigore, solo le prime tre sono antitesi semantiche vere e proprie; nelle
quarta coppia l’opposizione è mediata dai “racconti”, nelle ultime due
l’antitesi non è nella lingua, ma è istituita dalla poetessa, tramite
l’ellissi  e l’intermediazione della potente, originalissima metafora 
della  “impronta”. L’amore non è “insegnato” dal suo contrario, l’odio,
ma dall’intensità e dalla profondità del ricordo, così come la presenza
degli uccelli che sono volati via è ancora leggibile nelle impronte
conservate dalla neve: il valore delle “cose” viene rivelato dalla loro
mancanza, la vera conoscenza si ottiene dall’assenza, e l’eclissi
dell’essenziale è la condizione in cui viviamo, in un perpetuo «regime
di sottrazione».
Spetta a molte poesie sull’acqua, in cui ritorna il tema della sete, dar
voce a questa «mancanza di tutto che cura della mancanza delle cose
minori» (così Nadia Fusini in Nomi, Donzelli, Roma 1996). Si veda la
lirica 490, «Dire che cos’è l’acqua». Sono due strofe, due frasi
interrogative, in cui l’acqua, il “pozzo” che la contiene, il suo “sgocciolio”
simboleggiano una pienezza di vita di cui non è bene fare esperienza;
meglio limitarsi a immaginarla, visto che siamo condannati a non “bere”.
Analoga la poesia 
1291, «Finché il Deserto sa». Si vive come la ginestra
leopardiana, “contenti del deserto”, purché si speri in un po’ di pioggia.
Ma il sospetto che esista un serbatoio di acqua grande come il mare,
risvegliando prepotente il desiderio di bere senza limiti a quella fonte,
renderebbe intollerabile il deserto. Meglio rifugiarsi nel sogno…
Di questo gruppo di liriche la più struggente, la
566, è dedicata a una
tigre: «Una tigre morente – gemeva per la Sete». Tre strofe, altrettanti
quadri (mi verrebbe quasi da dire “misteri”, come nel rosario, o “stazioni”,
come nella via crucis, tanto è ispirata l’atmosfera). Tre anche i protagonisti:
la tigre assetata, la poetessa con l’acqua, la morte che viene; l’ambiente è
un deserto di sabbia e rocce, appena accennato nella prima strofa. È vero,
il destino annunciato nel primo verso si compie nell’ultimo: “una tigre
morente … era morta”. Ma in questo trionfo della morte avviene qualcosa
di decisivo: qualcuno lotta per soccorrere la tigre, cerca, scava nella sabbia;
e la tigre muore con quest’immagine negli occhi. Questa poesia non è
consolante, anzi, è terribile: ma ci dà almeno la consapevolezza della
dignità e della forza necessarie per “vivere senza”. Noi siamo nel deserto
del “senza”, inutile illudersi… Siamo tutti tigri morenti di sete, e possiamo
soltanto, l’uno per l’altro, cercare un po’ d’acqua, per portarci nella morte
l’immagine di una mano che si protende per aiutarci, anche se invano…
In altre liriche, invece, non è l’assenza d’acqua, bensì l’acqua stessa a
significare la morte, come un mare o un fiume che ci attende, ci chiama
e a poco a poco si richiude su di noi, sommergendoci.
La più “esplicita” è la lirica
1558, «Of Death I try to think like this – ».
L’immagine iniziale della tomba come un pozzo in cui veniamo deposti
è subito sostituita, grazie alla mediazione dell’acqua, da quella del ruscello
che minaccia e attira e diventa un mare, oltre al quale si trova il fiore viola
della notte perenne che ci attende.
Nella poesia 
107, «C’era una così piccola – piccola barca», il mare 
seducente  e l’onda “avida” sono due emblemi della morte, inevitabile
naufragio, esperienza imperscrutabile di “perdita”. Solo il ritmo
cantilenante, da filastrocca infantile, rende dicibile l’orrore.
Nella lirica 
537, «Sta a me provarlo ora – Chiunque dubiti»,
il tema della morte si intreccia con quello dell’Altro, dell’amato –
umano o divino non importa – verso cui la poetessa si protende
che forse è proprio “ricerca della fine”, e che è una dichiarazione
d’amore, o meglio un proclamare il trionfo dell’Amore sulla Morte,
come nella lirica 549, That I did always love.È una dichiarazione 
d’amore anche il dialogo che ascoltiamo in un altro testo (1210):
«Il Mare disse “Vieni” al Ruscello – / Il Ruscello disse:
 “Lasciami crescere” – / Il Mare disse “Allora sarai un Mare –
 / Io voglio un Ruscello – Vieni ora!». Queste parole scambiate 
tra il mare e il ruscello,tra l’immenso e il piccolo, fanno della morte,
e segnatamente della morte prematura, una chiamata imperiosa cui 
bisogna rispondere, e che dà accesso ad una trasfigurazione.
Nella lirica
162, «Il mio Fiume corre a te», è invece la poetessa a
rivolgersi direttamente al mare, in nome del suo “fiume”, chiedendo 
di essere accolta insieme con i suoi “ruscelli”: più che simbolo di
morte qui il mare è metafora di una comunione affettiva, di una
desiderata reciprocità di amicizia.Analogo il senso del distico 212,
ma ancora più intensa, più concentrata l’espressione:«I minimi fiumi – 
docili a qualche mare // Il mio Caspio – tu».
Qui il mare è indicato da un preciso nome geografico: il Caspio. Marisa
Bulgheroni spiega nelle note al “Meridiano” Mondadori: «Il Caspio è,
nella geografia fantastica di Emily, sinonimo del mare del desiderio,
opposto ai deserti della privazione” – il desiderio di immergersi, di
annullarsi, in qualcuno che per noi è un mare desiderato e inafferrabile».
Il mare assume parecchi altri significati simbolici: ora è figura del divino
dell’eternità, ora rappresenta il tempo della vita con le sue seduzioni e i
suoi pericoli, ora il dolore, ora la natura.
Nella lirica 
726, «In un primo momento abbiamo sete – è Legge di Natura»,
la sete di acqua della prima quartina è definita nella seconda indizio di
un’altra sete, che potrà essere soddisfatta solo dalla “grande acqua” che
si trova a Occidente, quella del mistero chiamato “immortalità”.
La poesia
867, «Fuggire indietro per percepire», è una lirica
ondulante  come il duplice movimento di fuga che dipinge, all’indietro
e in avanti, in alto e in basso, seguendo il ritmo e la forma del mare,
Gran Maestro di “divinità”, cioè emblema dell’impensabile che ci aspetta
dopo la morte. Scrive Giuseppe Ierolli nel sito Emily Dickinson The
Complete Work: «Molto bello il contrasto fra le due strofe. In entrambe
Emily Dickinson usa verbi che danno il senso di una fuga, di un ritrarsi,
come un fuggire dall’ingrata fatica di vivere. Ma poi nella prima strofa
il fuggire diventa consapevolezza della splendente bellezza della nostra
mente, un mare che luccica di curiosità e voglia di vivere. Nella seconda
il cammino è inverso: la mente può contemplare le sue vette,ma deve
anche saper guardare in basso, alla propria concretezza, al proprio
essere legata ad un corpo inevitabilmente eroso dal tempo. Solo se
siamo in grado  di saper vivere queste contraddittorie esperienze
possiamo  dire di esserci  istruiti a dovere per affrontare il divino».
Anche la poesia
1656, « Lungo la corrente bizzarra del Tempo», è divisa
in due parti, chiuse da due rime alternate e scandite da anafore: nella
prima parte è ripetuto il pronome noi/nostro; nella seconda,
l’interrogativo Quale. Il campo semantico del mare e della navigazione
le domina entrambe, ma nella prima parte con valore metaforico: a
differenza dei marinai e dei pirati, che hanno mappe e astrolabi per
orientarsi, noi dobbiamo navigare il mare del Tempo senza nessun
aiuto e senza nemmeno sapere la durata del viaggio.
La lirica
520, «Mi avviai Presto – Presi il mio cane», è una poesia
particolarmente misteriosa: è il racconto del sogno di fondersi con la
natura, una natura metamorfica, selvaggia e allo stesso tempo familiare,
da cui l’io lirico è contemporaneamente attratto e spaventato.
Marisa Bulgheroni (nelle note del “Meridiano” Mondadori) afferma
che il testo “è ricco di allusioni sessuali tradotte in metafore fantastiche”,
ma a me ricorda piuttosto La tempesta di Shakespeare, la scena II
dell’atto I in cui Ariel canta: Nothing of him that doth fade, / But doth
suffer a sea-change / Into something rich and strange.
 
Anche nella lirica 1217, «Fortitudine incarnata», il mare, per quanto
“terribile” e “vecchio”, rappresenta la forza scatenata della Natura,
della Vita, ed è contrapposto alla tomba e al suo immobile silenzio

senza fine.

Ancor più inquietante ed enigmatica mi sembra la poesia 1604,
«Inviamo l’Onda a trovare l’Onda». Il mare per così dire la incastona,
comparendo nel primo e nell’ultimo verso, a suggellare l’impotenza
umana («inviamo l’onda a trovare l’onda», «il momento migliore per
arginare il mare è quando il mare se n’è andato»), e i limiti della
ragione, le cui “sagge distinzioni” sono sempre vanificate dalla vita.
Forse è meglio partire e, come il messaggero innamorato, “scordarsi
di tornare”? Abbandonarsi alla vita e “obbedire al richiamo delle
maree” di cui parla la lirica successiva a questa, Each that we lose
takes part of us? Emily, come sempre, provoca il lettore, ne esige
una presa di posizione, non dà una risposta…
Più spesso, però, il mare – ma anche il ruscello, o l’acqua in genere –
 rinvia all’interiorità dell’io, di cui misura la profondità insondabile,
o alla poesia.Nella poesia 928, «Il cuore ha stretti argini», vengono
assimilati cuore e mare, per il ritmo regolare, incessante, possente –
che un uragano può sconvolgere: nel caso del cuore basta la “spinta
di un istante”, o un improvviso dubbio a sconvolgere una calma
fragile come una garza.Nella lirica 1425, «L’inondazione della
primavera», la piena primaverile dei fiumi è emblema del tumulto
della vita interiore, è qualcosa di positivo, che dilata il nostro essere,
e superato il primo smarrimento non si rimpiange più la riva a cui ci
aggrappavamo timorosi.Dal centro dell’essere sgorga – come un
ruscello che si fa mare – la Poesia, acqua di vita in una terra desolata,
esperienza aporetica per eccellenza. Le antitesi paradossali della lirica
1200, «Poiché il mio Ruscello fluisce», alludono a uno sgomento
incomunicabile, alla situazione sempre “apocalittica” da cui sgorga
la creazione artistica.Nella lirica 136, «Hai un ruscello nel tuo piccolo
cuore», la poetessa nelle prime due strofe definisce, tramite l’immagine
del ruscello, la sua sorgente interiore di energia vitale, di cui nessuno
sospetta l’esistenza, per poi esaminare i pericoli che minacciano tale
sorgente segreta: la piena dell’eccesso o l’inaridimento. E questo
“ruscello” segreto può essere la poesia stessa.
A conclusione della nostra “navigazione” nelle acque dickinsoniane,
dobbiamo constatare che relativamente pochi sono i testi in cui l’acqua
compare di sfuggita, solo come secondo termine di una similitudine. Si
tratta sempre di similitudini efficacissime, come quella contenuta in questi
versi che ribadiscono l’inscindibile unità dell’essere umano: «Lo spirito è
ascosto nella carne / come i flutti nel mare / che danno vita all’acqua, ma
isolati / l’uno dall’altro che cosa sarebbero?». (1576)
Ancor meno numerose sono le poesie in cui la poetessa sembra interessata
solo allo studio dell’acqua come fenomeno naturale (come la 794, che
descrive un’acquazzone estivo…), ma una di queste è fondamentale, la
1400, «Che mistero pervade un pozzo». L’esclamazione d’apertura ci
proietta nel mistero della natura, che nessuno può davvero penetrare e
di cui l’acqua è qui l’emblema, o come dice la Dickinson «il coperchio
di vetro», «il volto dell’abisso». Lo sguardo di Emily, invece, coglie
nell’insondabile acqua del pozzo il presagio di un mondo totalmente
altro rispetto all’umano, la conferma di una irriducibile estraneità tra
l’uomo e la natura, che rimane uno spettro indefinibile, al fondo di
una ricerca condannata alla frustrazione. Però nel testo compare un
altro “personaggio”, l’erba, che riesce a guardare l’acqua senza
sgomento, senza ansia, perché riesce a vivere anche «senza appoggio»,
fluidamente, nella precarietà più assoluta – come l’acqua, di cui forse
è in qualche modo “parente”. Questa è la lezione dell’acqua, questo
dovremmo imparare umilmente tutti: a vivere in mezzo a dubbi e
incertezze, senza essere ansiosamente a caccia di ragioni e verità.

GABRIELLA MONGARDi su “Margutte”








































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