IV.USA
9. Emily Elizabeth
Dickinson nota come Emily
Dickinson
(Amherst-Massachusetts-10
dicembre1830-Amherst,
15
maggio 1886.)è stata una poetessa statunitense,
Nacque nel 1830 ad Amherst
da una famiglia borghese
di tradizioni puritane.
I Dickinson erano
conosciuti per il sostegno fornito
alle istituzioni scolastiche
locali.
Suo nonno, Samuel Fowler Dickinson,
fu uno dei fondatori dello Amherst College,
mentre il padre ricoprì la
funzione di legale
e tesoriere dell'Istituto; inoltre ebbe importanti
incarichi presso il Tribunale
Generale del
Massachusetts, il Senato dello Stato e la Camera
dei
rappresentanti degli Stati Uniti.
b.
Fortitudine
incarnata
È qui deposta
nelle agitate sezioni
del temibile Mare -
vocio del felice
cavillo dell'ardito
canuto il godimento
ma il Mare è vecchio.
È qui deposta
nelle agitate sezioni
del temibile Mare -
vocio del felice
cavillo dell'ardito
canuto il godimento
ma il Mare è vecchio.
Edificio dell'Oceano
le tue tumultuose Stanze
mi soddisfano in ogni caso
molto più delle tombe.
(Emily Dickinson)
le tue tumultuose Stanze
mi soddisfano in ogni caso
molto più delle tombe.
(Emily Dickinson)
In un mio precedente articolo
su Margutte avevo indagato
la presenza della Natura
nella poesia di Emily Dickinson
(Amherst, Massachussets,
1830-1886), attraverso i riferimenti
ai quattro elementi
naturali (aria acqua terra fuoco) che gli
antichi filosofi greci, e
dopo di loro gli alchimisti rinascimentali,
consideravano l’origine di tutto, i primordi
delle cose; e di cui
nel Novecento la
psicanalisi junghiana ha sottolineato il valore
simbolico, inconscio, che
esercita un fascino potente sull’uomo.
Riprendo adesso da quel
lavoro, ampliandole, le considerazioni
relative all’elemento acqua nella produzione
della poetessa
americana, prendendo in
esame solo una ventina di liriche,
senza alcuna pretesa di esaustività.
L’analisi dei testi della
Dickinson in cui compare il tema dell’acqua
non può che cominciare dal
perentorio incipit della lirica 135:
«L’acqua
è insegnata dalla sete».
L’originalità linguistica di questo verso è data
dall’uso passivo del verbo
“insegnare”, riferito all’acqua: ma come si
fa a “insegnare l’acqua”?
La condensazione espressiva è altissima, al
limite dell’errore semantico, ma non c’è
lettore che non capisca il
significato della frase e
dell’intera lirica, costruita sull’enumerazione
di coppie di antitesi: acqua/sete,
terra/oceani, estasi/spasimo, pace/
racconti di battaglie,
amore/impronta di memoria, uccelli/neve. A
rigore, solo le prime tre sono antitesi
semantiche vere e proprie; nelle
quarta coppia
l’opposizione è mediata dai “racconti”, nelle ultime due
l’antitesi non è nella
lingua, ma è istituita dalla poetessa, tramite
l’ellissi e l’intermediazione della potente,
originalissima metafora
della “impronta”. L’amore non è “insegnato” dal suo
contrario, l’odio,
ma dall’intensità e dalla
profondità del ricordo, così come la presenza
degli uccelli che sono
volati via è ancora leggibile nelle impronte
conservate dalla neve: il
valore delle “cose” viene rivelato dalla loro
mancanza, la vera
conoscenza si ottiene dall’assenza, e l’eclissi
dell’essenziale è la condizione
in cui viviamo, in un perpetuo «regime
di sottrazione».
Spetta a molte poesie
sull’acqua, in cui ritorna il tema della sete, dar
voce a questa «mancanza di
tutto che cura della mancanza delle cose
minori» (così Nadia Fusini
in Nomi, Donzelli, Roma 1996). Si veda la
lirica 490,
«Dire che cos’è l’acqua». Sono due strofe, due frasi
interrogative, in cui
l’acqua, il “pozzo” che la contiene, il suo “sgocciolio”
simboleggiano una pienezza
di vita di cui non è bene fare esperienza;
meglio limitarsi a
immaginarla, visto che siamo condannati a non “bere”.
Analoga la poesia 1291, «Finché il Deserto sa». Si vive come la ginestra
Analoga la poesia 1291, «Finché il Deserto sa». Si vive come la ginestra
leopardiana, “contenti del
deserto”, purché si speri in un po’ di pioggia.
Ma il sospetto che esista
un serbatoio di acqua grande come il mare,
risvegliando prepotente il
desiderio di bere senza limiti a quella fonte,
renderebbe intollerabile
il deserto. Meglio rifugiarsi nel sogno…
Di questo gruppo di liriche la più struggente, la 566, è dedicata a una
Di questo gruppo di liriche la più struggente, la 566, è dedicata a una
tigre: «Una tigre morente
– gemeva per la Sete». Tre strofe, altrettanti
quadri (mi verrebbe quasi
da dire “misteri”, come nel rosario, o “stazioni”,
come nella via crucis, tanto è ispirata l’atmosfera).
Tre anche i protagonisti:
la tigre assetata, la
poetessa con l’acqua, la morte che viene; l’ambiente è
un deserto di sabbia e
rocce, appena accennato nella prima strofa. È vero,
il destino annunciato nel
primo verso si compie nell’ultimo: “una tigre
morente … era morta”. Ma
in questo trionfo della morte avviene qualcosa
di decisivo: qualcuno
lotta per soccorrere la tigre, cerca, scava nella sabbia;
e la tigre muore con
quest’immagine negli occhi. Questa poesia non è
consolante, anzi, è terribile:
ma ci dà almeno la consapevolezza della
dignità e della forza
necessarie per “vivere senza”. Noi siamo nel deserto
del “senza”, inutile
illudersi… Siamo tutti tigri morenti di sete, e possiamo
soltanto, l’uno per
l’altro, cercare un po’ d’acqua, per portarci nella morte
l’immagine di una mano che
si protende per aiutarci, anche se invano…
In altre liriche, invece,
non è l’assenza d’acqua, bensì l’acqua stessa a
significare la morte, come
un mare o un fiume che ci attende, ci chiama
e a poco a poco si
richiude su di noi, sommergendoci.
La più “esplicita” è la lirica 1558, «Of Death I try to think like this – ».
La più “esplicita” è la lirica 1558, «Of Death I try to think like this – ».
L’immagine iniziale della tomba come un pozzo
in cui veniamo deposti
è subito sostituita, grazie alla mediazione
dell’acqua, da quella del ruscello
che minaccia e attira e diventa un mare, oltre
al quale si trova il fiore viola
della notte perenne che ci
attende.
Nella poesia 107, «C’era una così piccola – piccola barca», il mare
Nella poesia 107, «C’era una così piccola – piccola barca», il mare
seducente e l’onda “avida” sono due emblemi della morte,
inevitabile
naufragio, esperienza imperscrutabile di “perdita”. Solo
il ritmo
cantilenante, da filastrocca infantile,
rende dicibile l’orrore.
Nella lirica 537, «Sta a me provarlo ora – Chiunque dubiti»,
Nella lirica 537, «Sta a me provarlo ora – Chiunque dubiti»,
il tema
della morte si intreccia con
quello dell’Altro, dell’amato –
umano o divino non importa – verso cui la
poetessa si protende
che forse è proprio “ricerca della fine”, e che è una
dichiarazione
d’amore, o meglio un proclamare il trionfo dell’Amore sulla
Morte,
come nella lirica 549, That
I did always love.È una dichiarazione
d’amore anche il dialogo che ascoltiamo in un altro testo (1210):
«Il Mare disse “Vieni” al Ruscello – / Il Ruscello disse:
“Lasciami crescere” – / Il
Mare disse “Allora sarai un Mare –
/ Io voglio un Ruscello – Vieni ora!».
Queste parole scambiate
tra il mare e il ruscello,tra l’immenso e il
piccolo, fanno della morte,
e segnatamente della morte prematura, una chiamata
imperiosa cui
bisogna rispondere, e che dà accesso ad una trasfigurazione.
Nella lirica 162, «Il mio Fiume corre a te», è invece la poetessa a
Nella lirica 162, «Il mio Fiume corre a te», è invece la poetessa a
rivolgersi direttamente al mare, in nome del suo “fiume”, chiedendo
di essere
accolta insieme con i suoi
“ruscelli”: più che simbolo di
morte qui il mare è metafora di una comunione
affettiva, di una
desiderata reciprocità di amicizia.Analogo il senso del distico 212,
ma ancora più intensa, più concentrata
l’espressione:«I minimi fiumi –
docili a qualche mare // Il mio Caspio – tu».
Qui il mare è indicato da
un preciso nome geografico: il Caspio. Marisa
Bulgheroni spiega nelle
note al “Meridiano” Mondadori: «Il Caspio è,
nella geografia fantastica di Emily, sinonimo
del mare del desiderio,
opposto ai deserti della
privazione” – il desiderio di immergersi, di
annullarsi, in qualcuno
che per noi è un mare desiderato e inafferrabile».
Il mare assume parecchi
altri significati simbolici: ora è figura del divino
dell’eternità, ora rappresenta il tempo della
vita con le sue seduzioni e i
suoi pericoli, ora il
dolore, ora la natura.
Nella lirica 726, «In un primo momento abbiamo sete – è Legge di Natura»,
Nella lirica 726, «In un primo momento abbiamo sete – è Legge di Natura»,
la sete di acqua della
prima quartina è definita nella seconda indizio di
un’altra sete, che potrà
essere soddisfatta solo dalla “grande acqua” che
si trova a Occidente,
quella del mistero chiamato “immortalità”.
La poesia 867, «Fuggire indietro per percepire», è una lirica
La poesia 867, «Fuggire indietro per percepire», è una lirica
ondulante come il duplice movimento di fuga che dipinge,
all’indietro
e in avanti, in alto e in
basso, seguendo il ritmo e la forma del mare,
Gran Maestro di
“divinità”, cioè emblema dell’impensabile che ci aspetta
dopo la morte. Scrive
Giuseppe Ierolli nel sito Emily Dickinson The
Complete Work: «Molto
bello il contrasto fra le due strofe. In entrambe
Emily Dickinson usa verbi
che danno il senso di una fuga, di un ritrarsi,
come un fuggire
dall’ingrata fatica di vivere. Ma poi nella prima strofa
il fuggire diventa
consapevolezza della splendente bellezza della nostra
mente, un mare che luccica
di curiosità e voglia di vivere. Nella seconda
il cammino è inverso: la
mente può contemplare le sue vette,ma deve
anche saper guardare in
basso, alla propria concretezza, al proprio
essere legata ad un corpo
inevitabilmente eroso dal tempo. Solo se
siamo in grado di saper vivere queste contraddittorie
esperienze
possiamo dire di esserci istruiti a dovere per affrontare il divino».
Anche la poesia 1656, « Lungo la corrente bizzarra del Tempo», è divisa
Anche la poesia 1656, « Lungo la corrente bizzarra del Tempo», è divisa
in due parti, chiuse da
due rime alternate e scandite da anafore: nella
prima parte è ripetuto il
pronome noi/nostro; nella seconda,
l’interrogativo Quale. Il
campo semantico del mare e della navigazione
le domina entrambe, ma
nella prima parte con valore metaforico: a
differenza dei marinai e
dei pirati, che hanno mappe e astrolabi per
orientarsi, noi dobbiamo
navigare il mare del Tempo senza nessun
aiuto e senza nemmeno
sapere la durata del viaggio.
La lirica 520, «Mi avviai Presto – Presi il mio cane», è una poesia
La lirica 520, «Mi avviai Presto – Presi il mio cane», è una poesia
particolarmente
misteriosa: è il racconto del sogno di fondersi con la
natura, una natura
metamorfica, selvaggia e allo stesso tempo familiare,
da cui l’io lirico è
contemporaneamente attratto e spaventato.
Marisa Bulgheroni (nelle
note del “Meridiano” Mondadori) afferma
che il testo “è ricco di
allusioni sessuali tradotte in metafore fantastiche”,
ma a me ricorda piuttosto La tempesta di Shakespeare, la scena II
dell’atto I in cui Ariel
canta: Nothing
of him that doth fade, / But doth
suffer a
sea-change / Into something rich and strange.
Anche nella lirica 1217, «Fortitudine incarnata», il mare, per quanto
“terribile” e “vecchio”,
rappresenta la forza scatenata della Natura,
della Vita, ed è
contrapposto alla tomba e al suo immobile silenzio
senza fine.
Ancor più inquietante ed enigmatica mi sembra la poesia 1604,
«Inviamo l’Onda a trovare
l’Onda». Il mare per così dire la incastona,
comparendo nel primo e
nell’ultimo verso, a suggellare l’impotenza
umana («inviamo l’onda a
trovare l’onda», «il momento migliore per
arginare il mare è quando
il mare se n’è andato»), e i limiti della
ragione, le cui “sagge
distinzioni” sono sempre vanificate dalla vita.
Forse è meglio partire e,
come il messaggero innamorato, “scordarsi
di tornare”? Abbandonarsi
alla vita e “obbedire al richiamo delle
maree” di cui parla la
lirica successiva a questa, Each
that we lose
takes
part of us? Emily, come sempre,
provoca il lettore, ne esige
una presa di posizione,
non dà una risposta…
Più spesso, però, il mare
– ma anche il ruscello, o l’acqua in genere –
rinvia all’interiorità dell’io, di cui misura
la profondità insondabile,
o alla poesia.Nella poesia
928, «Il cuore ha stretti argini», vengono
assimilati cuore e mare,
per il ritmo regolare, incessante, possente –
che un uragano può
sconvolgere: nel caso del cuore basta la “spinta
di un istante”, o un
improvviso dubbio a sconvolgere una calma
fragile come una
garza.Nella lirica 1425, «L’inondazione della
primavera», la piena
primaverile dei fiumi è emblema del tumulto
della vita interiore, è
qualcosa di positivo, che dilata il nostro essere,
e superato il primo
smarrimento non si rimpiange più la riva a cui ci
aggrappavamo timorosi.Dal
centro dell’essere sgorga – come un
ruscello che si fa mare –
la Poesia, acqua di vita in una terra desolata,
esperienza aporetica per eccellenza.
Le antitesi paradossali della lirica
1200, «Poiché il mio Ruscello fluisce», alludono a uno
sgomento
incomunicabile, alla
situazione sempre “apocalittica” da cui sgorga
la creazione
artistica.Nella lirica 136, «Hai un ruscello nel tuo piccolo
cuore», la poetessa nelle
prime due strofe definisce, tramite l’immagine
del ruscello, la sua
sorgente interiore di energia vitale, di cui nessuno
sospetta l’esistenza, per
poi esaminare i pericoli che minacciano tale
sorgente segreta: la piena
dell’eccesso o l’inaridimento. E questo
“ruscello” segreto può
essere la poesia stessa.
A conclusione della nostra
“navigazione” nelle acque dickinsoniane,
dobbiamo constatare che
relativamente pochi sono i testi in cui l’acqua
compare di sfuggita, solo
come secondo termine di una similitudine. Si
tratta sempre di
similitudini efficacissime, come quella contenuta in questi
versi che ribadiscono
l’inscindibile unità dell’essere umano: «Lo spirito è
ascosto nella carne / come
i flutti nel mare / che danno vita all’acqua, ma
isolati / l’uno dall’altro
che cosa sarebbero?». (1576)
Ancor meno numerose sono le poesie in cui la poetessa sembra interessata
Ancor meno numerose sono le poesie in cui la poetessa sembra interessata
solo allo studio
dell’acqua come fenomeno naturale (come la 794, che
descrive un’acquazzone
estivo…), ma una di queste è fondamentale, la
1400, «Che mistero pervade un pozzo». L’esclamazione
d’apertura ci
proietta nel mistero della
natura, che nessuno può davvero penetrare e
di cui l’acqua è qui
l’emblema, o come dice la Dickinson «il coperchio
di vetro», «il volto
dell’abisso». Lo sguardo di Emily, invece, coglie
nell’insondabile acqua del
pozzo il presagio di un mondo totalmente
altro rispetto all’umano,
la conferma di una irriducibile estraneità tra
l’uomo e la natura, che
rimane uno spettro indefinibile, al fondo di
una ricerca condannata
alla frustrazione. Però nel testo compare un
altro “personaggio”,
l’erba, che riesce a guardare l’acqua senza
sgomento, senza ansia,
perché riesce a vivere anche «senza appoggio»,
fluidamente, nella
precarietà più assoluta – come l’acqua, di cui forse
è in qualche modo
“parente”. Questa è la lezione dell’acqua, questo
dovremmo imparare
umilmente tutti: a vivere in mezzo a dubbi e
incertezze, senza essere
ansiosamente a caccia di ragioni e verità.
GABRIELLA MONGARDi su “Margutte”
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