LA NOTTE.16.
E allora
figurazioni di un’antichissima libera vita, di enormi miti solari, di stragi di
orgie si crearono avanti al mio spirito. Rividi un’antica immagine, una forma
scheletrica vivente per la forza misteriosa di assi
un mito barbaro, gli occhi
gorghi cangianti vividi di linfe oscure, nella tortura del sogno scoprire il
corpo vulcanizzato, due chiazze due fori di palle di moschetto sulle sue
mammelle estinte. Credetti di udire fremere le chitarre là nella capanna d’e di zingo sui terreni vaghi della città, mentre una candela schiariva il
terreno nudo. In faccia a me una matrona selvaggia mi fissava senza batter
ciglio. La luce era scarsa sul terreno nudo nel fremere delle chitarre. A lato
sul tesoro fiorente di una fanciulla in sogno la vecchia stava ora aggrappata
come un ragno mentre pareva sussurrare all’orecchio parole che non udivo, dolci
come il vento senza parole della Pampa che sommerge. La matrona selvaggia mi
aveva preso: il mio sangue tiepido era certo bevuto dalla terra: ora la luce
era più scarsa sul terreno nudo nell’alito metalizzato delle chitarre. A un
tratto la fanciulla liberata esalò la sua giovinezza, languida nella sua grazia
selvaggia, gli occhi dolci e acuti come un gorgo. Sulle spalle della bella
selvaggia si illanguidì la grazia all’ombra dei capelli fluidi e la chioma
augusta dell’albero della vita si tramò nella sosta sul terreno nudo invitando
le chitarre il lontano sonno. Dalla Pampa si udì chiaramente un balzare uno
scalpitare di cavalli selvaggi, il vento si udì chiaramente levarsi, lo
scalpitare parve perdersi sordo nell’infinito. Nel quadro della porta aperta le
stelle brillarono rosse e calde nella lontananza: l’ombra delle selvagge
nell’ombra.
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