II. IL VIAGGIO E IL RITORNO
Salivano
voci e voci e canti di fanciulli e di lussuria per i ritorti vichi dentro
dell’ombra ardente, al colle al colle. A l’ombra dei lampioni verdi le bianche
colossali prostitute sognavano sogni vaghi nella luce bizzarra al vento. Il
mare nel vento mesceva il suo sale che il vento mesceva e levava nell’odor
lussurioso dei vichi, e la bianca notte mediterranea scherzava colle enormi
forme delle femmine tra i tentativi bizzarri della fiamma di svellersi dal cavo
dei lampioni. Esse guardavano la fiamma e cantavano canzoni di cuori in catene.
Tutti i preludii erano taciuti oramai. La notte, la gioia più quieta della
notte era calata. Le porte moresche si caricavano e si attorcevano di mostruosi
portenti neri nel mentre sullo sfondo il cupo azzurro si insenava di stelle.
Solitaria troneggiava ora la notte accesa in tutto il suo brulicame di stelle e
di fiamme. Avanti come una mostruosa ferita profondava una via. Ai lati
dell’angolo delle porte, bianche cariatidi di un cielo artificiale sognavano il
viso poggiato alla palma. Ella aveva la pura linea imperiale del profilo e del
collo vestita di splendore opalino. Con rapido gesto di giovinezza imperiale
traeva la veste leggera sulle sue spalle alle mosse e la sua finestra
scintillava in attesa finchè dolcemente gli scuri si chiudessero su di una
duplice ombra. Ed il mio cuore era affamato di sogno, per lei, per
l’evanescente come l’amore evanescente, la donatrice d’amore dei porti, la
cariatide dei cieli di ventura. Sui suoi divini ginocchi, sulla sua forma
pallida come un sogno uscito dagli innumerevoli sogni dell’ombra, tra le
innumerevoli luci fallaci, l’antica amica, l’eterna Chimera teneva fra le mani
rosse il mio antico cuore.
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