mercoledì 6 luglio 2016

I narratori poeti.C.Pavese.6.

La peste di descrizioni naturali,di richiami comiaciuti alle cose
e al mondo,nelle opere  d'arte nasce da un equivoco:l'opera,che
vuol essere un oggetto naturale tra gi altri,crede di riuscirvi
rispecchiandone quanti più può.Ma la natura di uno specchio
non sono le parvenze che ne affiorano.queste sono soltanto la
sua utilità.  Quando si dice che la poesia è ritmo  non copia ,
s'intende appunto definirne la natura..Ecco perché la nostra
poesia vuole eliminare sempre più gli oggetti .tende a imporsi
come oggetto essa stessa,come sostanza di parole.la sensualità
verbale dannunziana e in genere decadente scambia ancora
questa sostanza con la carne delle cose.E' un'onomatopeica
universale.Da noi l'elocuzione si fa casta e scarna,trova il
suo ritmo in qualcosa  di ben più segreto che non le voci
delle cose:quasi ignora se  stessa e,se dobbiamo dir tutto,
è parola a malincuore.Quest'è la nostra inquietudine:sospetto
verso la parola che è al tempo stesso unica nostra realtà..
Cerchiamo la sostanza di ciò che non ci convince:per questo
esistiamo e soffriamo.;anche il mio libro - Lavorare stanca -
ha oscuramente fatto questo.Cercava l'oggetto  scarnendo
la parola,tendeva cioè a una sostanza che non era più
oggetto né forse parola.Voleva un ritmo - né canto né
sensualità verbale.per questo evitò il verso musicale e
trattò parole neutre.Ebbe l'unico torto di indulgere alla
frase colorita di "parlato",che è un altro modo di specchiare
la natura.Ma se ne liberò a poco a  poco,costretto dal ritmo
che sempre meglio radioscopava le cose.Poi nelle prose
ricademmo nel parlato.Perché?Perché qui ci mancava
l'appoggio del ritmo.Ora il problema è penetrare alla
sostanza presupponendo quest'appoggio.

(da Il mestiere di vivere)                                 

                                                                              continua

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