La flâneuse.10.André
Breton
Nadja di André Breton
Nel 1928, nel pieno
dell’affermazione del movimento surrealista, André Breton pubblica Nadja,
romanzo che si presenta come
resoconto autobiografico degli incontri, realmente avvenuti, con
Léona Delcourt. Figlia di un tipografo
residente a Lille, Léona –che ha scelto per sé lo pseudonimo
Nadja, perché è l’inizio della parola russa
“speranza”(nadjejda), e “perché è soltanto l’inizio”,come
dirà la donna – che si è trasferita nel 1923 a
Parigi per volontà della famiglia, in seguito a una
gravidanza fuori dal
matrimonio e al suo rifiuto di sposarsi con un gesto riparatore. Quando
Breton la conosce , il 4 ottobre 1926, vive
all’Hotel du Théâtre e vaga senza meta per le strade
della città, in miseria ma
“a testa alta, al contrario di tutti gli altri passanti” (Breton1977,), nota
l’autore. A Breton la flâneuse appare subito
come un “genio della libertà”, uno “spirito dell’aria”
che alla domanda diretta “Chi è lei?” ha la prontezza e il coraggio di
rispondere: “Sono l’anima
errante” . Da questo
momento, fino al 13 ottobre, i due si vedono ogni giorno, a volte cercandosi
a volte casualmente, finché
Breton avverte un sempre più forte disagio nei confronti della donna
e del suo mondo
caratterizzato dagli alti e bassi dell’esaltazione enfatica o della caduta più
rovinosa.
L’intesa si interrompe o
forse, come afferma lo scrittore, non c’è mai stata: “Per quanto desiderio ne
avessi credo di non essere
stato all’altezza di ciò che lei mi proponeva”, conclude. E aggiunge: “Ma
he cosa mi proponeva? Non
importa”.Al termine del libro, Breton riporta la notizia della reclusione
di Nadja nel manicomio di
Vaucluse, notizia seguita da un affondo contro la psichiatria e l’arbitrarietà
di tutti gli internamenti.
Sappiamo che in effetti
Léona morirà nel 1941, a soli trentotto anni, nell’ospedale psichiatrico di
Bailleul. Un aspetto degno di nota di questo
strano romanzo riguarda innanzitutto lo stile, le scelte
formali originali e desuete
di Breton. Come dirà lo stesso autore nella premessa (dal titolo Dispaccio
ritardato) all’edizione del
1962, il testo obbedisce infatti a due “imperativi antiletterari”: evitare
qualsiasi forma di
descrizione e non curarsi degli effetti di stile del racconto. Alla prima
esigenza
risponde l’abbondante numero di fotografie,che
vanno così a sostituire le illustrazioni letterarie.
All’interno del testo compaiono infatti più di
quaranta
foto: immagini di Parigi,
dei luoghi frequentati da Breton con gli altri surrealisti o con Nadja,
ritratti
fotografici di personaggi (come la veggente
madame Sacco) e di oggetti misteriosi nominati nel
racconto, disegni visionari
, ritratti simbolici della coppia che Nadja abbozzerà durante i dieci giorni
della loro frequentazione.
Il secondo bisogno antiromanzesco viene invece soddisfatto dalla
rivendicazione di uno stile
volutamente scarno e asciutto, “ricalcato su quello dell’osservazione
linica, e soprattutto
neuropsichiatrica”(Breton, 1977,), come dichiarerà lo stesso Breton. Per far
emergere l’imprevisto,
l’ignoto, occorre lasciare il testo “spalancato come una porta” di cui “non
occorre andare a cercare le chiave”, come
l’autore vuole e si augura di essere riuscito a fare. La
“casa di vetro” che Breton
sostiene di abitare –una casa dalle pareti e dal soffitto di vetro con letti
e lenzuola di vetro, “dove
chi sono mi apparirà presto o tardi inciso a punta di diamante” –
corrisponde quindi a una
scrittura non psicologica né romanzesca, povera di aggettivi e descrizioni,
mai satura di parole ed
effetti stilistici, è “la metafora scoperta del libro, ma anche il segno di una
sublimazione che rimuove
dall’area dell’osservabile ogni visione scorretta, bassa, patologica” .
Breton semplicemente racconta, anzi constata,
enumera, eventi realmente accaduti. Riferire gli
episodi più incisivi di
quel periodo della sua vita, colti al di fuori di qualsiasi sviluppo
organico,per
l’autore significa in primo luogo esporre “i
casi fortuiti, dal più piccolo al più grande”, “i collegamenti
improvvisi”, le “coincidenze pietrificanti”,
“i riflessi più forti di qualsiasi impulso mentale” (Breton,
1977). Il carattere imprevisto dei fatti
conduce a una serie di associazioni che appaiono come “segnali”
da decifrare, indizi
contraddistinti da un’inverosimile “complicità”. Tale è il carattere di quegli
oggetti e
quei luoghi che danno la netta sensazione di
essere qualcosa di decisivo e paradossalmente infallibile,
ma al di là dell’iniziativa
cosciente, di ogni tentativo di previsione o padronanza. Breton richiama in
queste pagine la scrittura
automatica, strategia surrealista che, affidando la regia al caso attraverso
giochi collettivi come quello del cadavre
exquis[1],
mette da parte la logica causale della narrazione per
far emergere la potenza delle parole nella
loro autonomia. Il testo, anche grazie alla pluralità dei
partecipanti[2]viene
in tal modo scritto dal pensiero stesso più che da un soggetto che pensa, in
una
modalità che vuole rappresentare innanzitutto
una critica radicale alla concezione della
scrittura
ome espressione a
posteriori di pensieri preesistenti.“Libera dalla logica del logos –sostiene Blanchot
–
la scrittura surrealista,
che rifiuta tutto ciò che la mette in opera e la rende disponibile per
un’opera,
è la prossimità stessa del
pensiero, l’affermazione che lo afferma,sempre già inscritta senza
trascrizione,
tracciata senza traccia: il
testuale Il pensiero detta”
Nel romanzo Nadja il “caso
oggettivo” protagonista dei testi automatici viene realizzato attraverso la
straordinaria potenza di
incontri ed eventi accidentali e ad un tempo assolutamente necessari, di cui
si può essere testimoni sbalorditi ma anche
stranamente coinvolti, protagonisti liberi da ogni
responsabilità ma anche, nello stesso tempo, implicati
e inspiegabilmente “fieri”.
[1] Gioco
letterario inventato a Paris da un gruppo di surrealisti il cui principio
chiede ad ogni partecipante di scrivere di volta in volta una funzione della
frase,nell’ordine soggetto – attributo – verbo - complemento, ignorando quello
che ha scritto chi lo precedeva. La prima frase che dette il nome al gioco fu
:”Il cadavere squisito berrà il vino novello”. Fa parte delle creazioni
ispirate al concetto di inconscio,che auspicano l’esplorazione delle sue
risorse. Non era all’inizio che un’attività ludica,secondo Breton:”benché a
tiolo difensivo,talvolta quest’attività ia stata detta da noi sperimentale”,noi
vi cercavamo anzitutto il divertimento. Quel che abbiamo potuto scoprirvi in
termini di arricchimento rispetto alla
conoscenza,è venuto solo in seguito.
[2] Cfr. Blanchot
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