domenica 7 gennaio 2018

La flâneuse.10.André Breton



La  flâneuse.10.André Breton

Nadja di André Breton

Nel 1928, nel pieno dell’affermazione del movimento surrealista, André Breton pubblica Nadja,
romanzo che si presenta come resoconto autobiografico degli incontri, realmente avvenuti, con
 Léona Delcourt. Figlia di un tipografo residente a Lille, Léona –che ha scelto per sé lo pseudonimo
 Nadja, perché è l’inizio della parola russa “speranza”(nadjejda), e “perché è soltanto l’inizio”,come
 dirà la donna – che si è trasferita nel 1923 a Parigi per volontà della famiglia, in seguito a una
gravidanza fuori dal matrimonio e al suo rifiuto di sposarsi con un gesto riparatore. Quando
 Breton la conosce , il 4 ottobre 1926, vive all’Hotel du Théâtre e vaga senza meta per le strade
della città, in miseria ma “a testa alta, al contrario di tutti gli altri passanti” (Breton1977,), nota
 l’autore. A Breton la flâneuse appare subito come un “genio della libertà”, uno “spirito dell’aria”
 che alla domanda diretta  “Chi è lei?” ha la prontezza e il coraggio di rispondere: “Sono l’anima
errante” . Da questo momento, fino al 13 ottobre, i due si vedono ogni giorno, a volte cercandosi
a volte casualmente, finché Breton avverte un sempre più forte disagio nei confronti della donna
e del suo mondo caratterizzato dagli alti e bassi dell’esaltazione enfatica o della caduta più rovinosa.
L’intesa si interrompe o forse, come afferma lo scrittore, non c’è mai stata: “Per quanto desiderio ne
avessi credo di non essere stato all’altezza di ciò che lei mi proponeva”, conclude. E aggiunge: “Ma
he cosa mi proponeva? Non importa”.Al termine del libro, Breton riporta la notizia della reclusione
di Nadja nel manicomio di Vaucluse, notizia seguita da un affondo contro la psichiatria e l’arbitrarietà
di tutti gli internamenti.
Sappiamo che in effetti Léona morirà nel 1941, a soli trentotto anni, nell’ospedale psichiatrico di
 Bailleul. Un aspetto degno di nota di questo strano romanzo riguarda innanzitutto lo stile, le scelte
formali originali e desuete di Breton. Come dirà lo stesso autore nella premessa (dal titolo Dispaccio
ritardato) all’edizione del 1962, il testo obbedisce infatti a due “imperativi antiletterari”: evitare
qualsiasi forma di descrizione e non curarsi degli effetti di stile del racconto. Alla prima esigenza
 risponde l’abbondante numero di fotografie,che vanno così a sostituire le illustrazioni letterarie.
 All’interno del testo compaiono infatti più di quaranta
foto: immagini di Parigi, dei luoghi frequentati da Breton con gli altri surrealisti o con Nadja, ritratti
 fotografici di personaggi (come la veggente madame Sacco) e di oggetti misteriosi nominati nel
racconto, disegni visionari , ritratti simbolici della coppia che Nadja abbozzerà durante i dieci giorni
della loro frequentazione. Il secondo bisogno antiromanzesco viene invece soddisfatto dalla
rivendicazione di uno stile volutamente scarno e asciutto, “ricalcato su quello dell’osservazione
linica, e soprattutto neuropsichiatrica”(Breton, 1977,), come dichiarerà lo stesso Breton. Per far
emergere l’imprevisto, l’ignoto, occorre lasciare il testo “spalancato come una porta” di cui “non
 occorre andare a cercare le chiave”, come l’autore vuole e si augura di essere riuscito a fare. La
“casa di vetro” che Breton sostiene di abitare –una casa dalle pareti e dal soffitto di vetro con letti
e lenzuola di vetro, “dove chi sono mi apparirà presto o tardi inciso a punta di diamante” –
corrisponde quindi a una scrittura non psicologica né romanzesca, povera di aggettivi e descrizioni,
mai satura di parole ed effetti stilistici, è “la metafora scoperta del libro, ma anche il segno di una
sublimazione che rimuove dall’area dell’osservabile ogni visione scorretta, bassa, patologica” .
 Breton semplicemente racconta, anzi constata, enumera, eventi realmente accaduti. Riferire gli
episodi più incisivi di quel periodo della sua vita, colti al di fuori di qualsiasi sviluppo organico,per
 l’autore significa in primo luogo esporre “i casi fortuiti, dal più piccolo al più grande”, “i collegamenti
 improvvisi”, le “coincidenze pietrificanti”, “i riflessi più forti di qualsiasi impulso mentale” (Breton,
 1977). Il carattere imprevisto dei fatti conduce a una serie di associazioni che appaiono come “segnali”
da decifrare, indizi contraddistinti da un’inverosimile “complicità”. Tale è il carattere di quegli oggetti e
 quei luoghi che danno la netta sensazione di essere qualcosa di decisivo e paradossalmente infallibile,
ma al di là dell’iniziativa cosciente, di ogni tentativo di previsione o padronanza. Breton richiama in
queste pagine la scrittura automatica, strategia surrealista che, affidando la regia al caso attraverso
 giochi collettivi come quello del cadavre exquis[1], mette da parte la logica causale della narrazione per
 far emergere la potenza delle parole nella loro autonomia. Il testo, anche grazie alla pluralità dei
 partecipanti[2]viene in tal modo scritto dal pensiero stesso più che da un soggetto che pensa, in una
 modalità che vuole rappresentare innanzitutto una critica radicale alla concezione  della scrittura
ome espressione a posteriori di pensieri preesistenti.“Libera dalla logica del logos –sostiene Blanchot –
la scrittura surrealista, che rifiuta tutto ciò che la mette in opera e la rende disponibile per un’opera,
è la prossimità stessa del pensiero, l’affermazione che lo afferma,sempre già inscritta senza trascrizione,
tracciata senza traccia: il testuale Il pensiero detta”
Nel romanzo Nadja il “caso oggettivo” protagonista dei testi automatici viene realizzato attraverso la
straordinaria potenza di incontri ed eventi accidentali e ad un tempo assolutamente necessari, di cui
 si può essere testimoni sbalorditi ma anche stranamente coinvolti, protagonisti liberi da ogni
 responsabilità ma anche, nello stesso tempo, implicati e inspiegabilmente “fieri”.


[1] Gioco letterario inventato a Paris da un gruppo di surrealisti il cui principio chiede ad ogni partecipante di scrivere di volta in volta una funzione della frase,nell’ordine soggetto – attributo – verbo - complemento, ignorando quello che ha scritto chi lo precedeva. La prima frase che dette il nome al gioco fu :”Il cadavere squisito berrà il vino novello”. Fa parte delle creazioni ispirate al concetto di inconscio,che auspicano l’esplorazione delle sue risorse. Non era all’inizio che un’attività ludica,secondo Breton:”benché a tiolo difensivo,talvolta quest’attività ia stata detta da noi sperimentale”,noi vi cercavamo anzitutto il divertimento. Quel che abbiamo potuto scoprirvi in termini di arricchimento rispetto alla
conoscenza,è venuto solo in seguito.

[2] Cfr. Blanchot

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